Una Medea viva
La regia di Luca Ronconi è stata ripresa da Daniele di Salvo che con il maestro ha avuto la fortuna di collaborare per anni. Si tratta qui di una riproposta preziosa per gli appassionati di teatro, perché il personaggio di Medea è addirittura interpretato da un attore che con Ronconi aveva lavorato fianco a fianco: Franco Branciaroli. Ma Medea tocca da vicino anche chi, tra il pubblico, non avesse avuto modo di pregustare prima d’ora la regia ronconiana. In verità (…)
(...) In verità la tragedia di Euripide può donarci ancora tanto per due ragioni. Innanzitutto il teatro greco era concepito a strettissimo contatto con cittadini-spettatori e poteva quindi offrire loro opportunità di riflessioni politiche pulsanti nel cuore stesso della città. Ma la seconda ragione spiega meglio il fatto per cui Medea può parlare a tutte le epoche storiche: parlare il linguaggio del mito. Lo spettacolo riproposto nei giorni scorsi al lac ottempera felicemente a entrambe le ragioni. Non occorre ricordare qui gli elementi della tragedia greca, peraltro presenti in scena. Neppure occorre ricordare la violenza del personaggio di Medea, ricettacolo di astuzie e inganni per antonomasia, nonché portatrice di un amore marziale per Giasone. Amore che è presagio di morte e razzia (si pensi soltanto al furto del vello d’oro dall’altare di Ares). Medea ha spalle larghe, gambe muscolose e robuste voci di registro. È un patto necessario con lo spettatore: una Medea in linea con gli antichi personaggi greci che al tempo di Euripide venivano agiti soltanto da attori uomini. Medea è agita da un attore che interpreta un uomo che sta interpretando una donna. Lasciamo la prospettiva di genere a discorsi di altra sede. Qui, Medea incarna un buio atavico che sfugge a qualunque inclusione civile. L’irrazionalità della barbara assassina agisce per intercessione di altre rispondenze divine, provenienti da altri luoghi. L’allestimento riporta alla memoria le strabilianti macchine teatrali di Ronconi. Lo spettatore è confrontato con congegni, schermi, interni mobili provvisti di ruote montati e smontati dagli stessi attori durante i cambi scena. Inoltre, la dizione detta lo straniamento del senso; le parole interrompono giudizi, spezzano ritmi e strappano significati vacillanti sulla crudeltà del gesto che compie l’orrore. Una visione che non può che disinnescare ogni processo di identificazione psicologica. Personaggi che pietrificano l’eternità della tragedia, scandiscono la glaciale ripetizione, come orologi meccanici della morte.