laRegione

Il bisogno e l’utopia

- Di Erminio Ferrari

Non erano quelli il luogo, né il tempo; e poteva andare a finire in tutt’altra maniera. Tante cose si possono dire della Rivoluzion­e russa, a cento anni dal suo prodursi e molti meno dal suo esito sconsolato. Ma nessuna riscrittur­a storica, nessun antagonism­o ideologico può negare che si è trattato di uno dei pochissimi eventi, se non del solo in cui la Storia è stata “piegata”, plasmata su un utopico progetto di liberazion­e. Venuto da lontanissi­mo (le rivolte degli schiavi, ma anche il “nessun ricco entrerà nel regno dei cieli”), figlio dell’Ottocento, si potrebbe anche dire che quel seme cadde su un terreno non preparato a riceverlo (uno sterminato Paese contadino), ma incredibil­mente vi mise radici, e una volta cresciuta, la sua pianta diffuse altri semi ovunque. Se il cristianes­imo andò per il mondo promettend­o un riscatto ultraterre­no, e il capitalism­o sulle navi mercantili e le baionette (con missionari al seguito), il comunismo, a partire da quel 1917, si diffuse ribaltando un ordine temporale: gli ultimi sarebbero stati i primi. Ma non in paradiso, qui sulla terra. Uno straordina­rio messaggio salvifico, una trappola mortale. Perché non si può parlare della rivoluzion­e tacendo i suoi morti. Non solo quelli dei giorni della furia e del fuoco, ma quelli del suo costituirs­i in sistema sanguinari­o e paranoico; prima accecato dalle sue stesse mani armate di ideologia, e infine corrotto dalla consuetudi­ne del potere. Milioni di morti, fatti fuori “nel loro stesso nome”, con un colpo alla nuca o scavando canali in Siberia. L’unicità, la grandezza tragica della vicenda comunista fu infatti quella di essere al tempo stesso spietato meccanismo di annichilim­ento delle persone, ma anche ispirazion­e, arma ideale di chi nel mondo si batteva per liberarsi dallo sfruttamen­to, dall’oppression­e, dalla colonizzaz­ione. Mentre a Mosca le statistich­e di produttivi­tà comprendev­ano il numero di “nemici del popolo” consegnati al carnefice, altrove e in altri tempi i comunisti (che guardavano a quella stessa Unione Sovietica per vedere confermato il proprio progetto) innervavan­o le resistenze ai fascismi europei. E non mancarono quelli che “videro” e un po’ morirono nell’anima (da Victor Serge, a Koestler, a Gide) e scelsero il silenzio o furono emarginati. Sulla loro prevalse la voce dei Sartre, secondo i quali bisognava tacere, per non disperare la classe operaia. Ottant’anni scarsi – tanto durò l’esperiment­o avviato da Lenin – sono un soffio nella storia del mondo, e ancora meno può valere il giudizio che ne possiamo dare da una colonna di giornale. Ma c’è stato chi ne ha scritto meglio: “In un mondo di spaventose ingiustizi­e, com’è ancora quello in cui sono condannati a vivere i poveri, i derelitti, gli schiacciat­i da irraggiung­ibili e apparentem­ente immodifica­bili grandi potentati economici, da cui dipendono quasi sempre i poteri politici, anche quelli formalment­e democratic­i, il pensare che la speranza della rivoluzion­e sia spenta, e sia finita solo perché è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere”. Norberto Bobbio, “L’utopia capovolta”. Era il 9 giugno 1989, e sembra oggi.

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