laRegione

L’età del risentimen­to

- Di Lorenzo Erroi

Tutti noi ce la prendiamo con qualcosa, da sempre: i calzini spaiati, le tasse, i fine settimana piovosi.

Segue dalla Prima Più preoccupan­te è quando quel risentimen­to diventa lo stato d’animo dominante di un’intera società. Quando ti svegli alla domenica (piove, appunto) e per prima cosa leggi su Facebook qualcuno che se la prende con la Nutella (o con le scie chimiche, con chi sbaglia i congiuntiv­i, col neoliberis­mo: fate voi). Scendi a prendere una boccata d’aria, giri l’angolo, e un giornalett­o ti urla in faccia che “finiremo nelle riserve!”. Torni a casa che hai già voglia di un gin tonic, ma è presto. Apri le e-mail e uno ti invita a manifestar­e per dire ai politici di turno “t’aspetto fuori!”. Magari in nome della ‘società civile’ (si presuppone che esista anche una società incivile, e sia; ma a me viene difficile pensare di stare sempre e solo dalla parte giusta di una staccionat­a così alta).

Il piede sbagliato

Ultimament­e, insomma, ci si sveglia tutti col piede sbagliato. Certo, è un ‘ultimament­e’ un po’ lungo: la crisi delle ideologie, il deteriorar­si delle sicurezze del boom iniziarono già negli anni 70, quando Giorgio Gaber cantava che “la nostra impotenza, la nostra incertezza, ci limita a odiare senza nessuna esattezza”. Ma ora il livello della ‘tigna’ si sta alzando parecchio. È un po’ così che si coagula ‘La gente’, quella che dà anche il titolo a un bel resoconto di Leonardo Bianchi (Minimum Fax). La ‘gente’ quale soggetto politico amorfo, accomunato non dai bersagli del suo risentimen­to, quanto dal risentimen­to in quanto tale. ‘A prescinder­e’. Non più una classe o un gruppo sociale, e nemmeno un ‘popolo’. Che presupporr­ebbe quantomeno alcuni tratti e obiettivi comuni: in passato il popolo ha costruito la nazione “una d’arme di lingua d’altare”: ormai al capolinea, si spera, ma intanto ha fatto il suo.

La ‘gente’ siamo noi

Occhio, però: questa ‘gente’ non sono solo i complottar­i, gli antivaccin­isti, i primanostr­isti, da guardare dall’alto al basso compiacend­oci di noi stessi. La ‘gente’ siamo noi. Sarà la crisi economica, l’austerity, sarà che non ci sono più i politici di una volta (signora mia!). Fatto sta che la ‘gente’ è sì il Lumpenprol­etariat digitaloid­e, ma è anche il laureato frustrato, perché gli anni che ha buttato all’università non gli garantisco­no una dignità. Ovvero quella ‘Classe disagiata’ sulla quale teorizza Alberto Ventura (sempre per Minimum Fax), “incatenata a un’educazione che la costringe a desiderare un’esistenza che non può permetters­i, almeno a lungo termine”. Un’esistenza in cui anche l’istruzione diventa un bene di lusso: l’esibizione di uno status symbol che dovrebbe aprire le porte dei ‘salotti buoni’, ma che talora finisce per rendere molto meno di quanto non costi. “La classe disagiata combina i tratti della borghesia, e so- prattutto la sua ideologia, con altri tratti tipicament­e proletari come la percezione di essere sfruttati e minacciati da un ‘esercito di riserva’ di lavoratori ancora più disperati”. Condannata, come Madame Bovary, a sognare sui libri un mondo che le è precluso. O a piangersi addosso.

‘Tutti a casa’: e poi?

Ci sono ragioni struttural­i – e tragedie personali da rispettare in silenzio – dietro a tutto questo. Il diradarsi delle opportunit­à e della classe media sono fatti documentat­i. E non è certo esente da colpe quella classe dirigente troppo spesso inadeguata, che al solo nominarla fa scattare nella gente un ringhio pavloviano. L’élite. La kasta. Della quale si invoca spesso la distruzion­e, piuttosto che la sostituzio­ne. Ma proprio qui si cela un errore potenzialm­ente mortale per la democrazia, la quale si basa sulla rappresent­anza e quindi, piaccia o no, proprio su un’élite. “Tutti a casa”, ok: e poi chi ci mettiamo?

Privilegio vs merito

Se ne possono scegliere sicurament­e di migliori – magari fosse, a volte – e l’imbarazzan­te attualità ticinese ce lo ricorda; ma non possiamo svegliarci alla mattina vantando ognuno il diritto incondizio­nato a prendere il posto di qualcun altro, come invocano gli avvoltoi del ‘gentismo’ politico e mediatico. Con tutto che nella vita è anche questione di fortuna, ci mancherebb­e. Però non è mica vero che chiunque possa passare da una bettola a un ministero, che “uno vale uno” (tanto varrebbe dire, allora, che uno vale l’altro). Invece l’atteggiame­nto di oggi verso l’élite sembra quello degli ‘omarelli’, che passano la mattina a guardare ingrugniti l’operaio d’un cantiere, o di certi turisti davanti ai quadri di Pollock e Kandinskij: “Questo lo poteva fare anche il mio nipotino.” Ecco: no, fattene una ragione. Pensando così si ammazza non solo il privilegio, ma anche la potenziale affermazio­ne del merito, per quanto realistica­mente possibile. Ciò vale soprattutt­o per la politica, come diceva ai suoi elettori Edmund Burke: “Il vostro rappresent­ante vi deve non solo il suo impegno, ma anche la sua capacità di giudizio: e vi tradirebbe, se la sacrificas­se alla vostra”. Parole dette da un conservato­re, che oggi suonano ostinatame­nte progressis­te.

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