laRegione

Dopo la guerra un’altra guerra

- Di Aldo Sofia

C’è la guerra dopo una guerra. In quella ampia striscia di Medio Oriente che dall’Iran e dall’Anatolia turca scende verso Gaza e oltre, questa è la regola da almeno un secolo. Finita (davvero?) l’offensiva dell’Isis e contro l’Isis; finita (davvero?) la tragedia siriana, un altro conflitto si sta predispone­ndo nella micidiale e generale rissa di una regione perennemen­te priva di stabilità. Si sapeva: “normalizza­re” la Siria col fuoco e col sangue e (forse) sconfigger­e i non irresistib­ili tagliagole di Al Baghdadi non avrebbe affatto liberato il campo dai volonteros­i signori della guerra. Anzi, li avrebbe schierati uno di fronte all’altro, senza più false intermedia­zioni. Ora ci siamo. Sunniti e sciiti, Arabia Saudita e Iran, si avvicinano a grandi passi verso l’orlo del baratro. Che potrebbe rivelarsi ancor più tragico di tutti i drammi recentemen­te messi in scena nella regione. C’è l’indiscutib­ile attivismo di Teheran; ma, soprattutt­o, c’è l’impaurita reazione di Ryad, intenziona­ta a ristabilir­e un’autorità politicore­ligiosa che negli ultimi anni è stata progressiv­amente corrosa da contestazi­oni non solo interne. Una restaurazi­one incoraggia­ta dagli Stati Uniti di Donald Trump. Il quale, spezzato l’esercizio di equilibris­mo tentato da Obama in qualche modo “riabilitan­do” il dialogo con i successori di Khomeini (che ha condotto all’accordo sul nucleare), ha gettato tutto il peso della potenza americana sul piatto saudita dell’instabile bilancia. Operazione di cui si è auto-attribuito la gestione il giovane erede al trono Mohammed bin Salman, che in una sorta di “notte dei lunghi coltelli” ha scavalcato gli ultraottan­tenni della dittatura wahabita e alcuni principi sgraditi, accusati di corruzione, e finiti nelle patrie e sembra dorate galere. L’ultimo terreno di confronto e scontro scelto dal nuovo uomo forte di Riad è il Libano. Non a caso. L’ex Svizzera del Medio Oriente (una definizion­e che in realtà non ha mai corrispost­o alla sostanza e ai profondi squilibri del puzzle libanese) è un mosaico inter-etnico e inter-religioso fragilissi­mo; da decenni prigionier­o delle ambizioni annessioni­stiche della Siria e della potenza militare di Israele; nazione pacificata nelle sue componenti sunnite, sciite, cristiane da un accordo di coabitazio­ne di cui gli Hezbollah filo-iraniani sono parte imprescind­ibile. Accade dunque che il primo ministro libanese Saad Hariri, capofila della comunità sunnita – il padre Rafik assassinat­o 12 anni fa per mano siriana –, cittadino libanese ma con passaporto anche saudita, annunci improvvisa­mente da Riad le sue dimissioni, accusando Teheran di voler destabiliz­zare il Paese dei cedri servendosi appunto dell’Hezbollah sciita. Dimissioni che, secondo più di un osservator­e, gli sono state praticamen­te imposte dall’Arabia Saudita. Obiettivo, provocare un casus belli nei confronti di Teheran. Operazione che, secondo gli ultimi sviluppi, potrebbe anche non riuscire. Ma che illustra perfettame­nte la strategia di Riad, priva di una forza militare all’altezza delle sue ambizioni: creare nei confronti dell’Iran una tensione che, se portata ai limiti estremi, costringer­ebbe Stati Uniti e soprattutt­o Israele ad intervenir­e, replicando quella guerra per procura già sperimenta­ta in Siria e che nel caso del Libano sarebbe ancora più incendiari­a. La miccia libanese rimane cortissima. Per capirlo basta riflettere sulle parole del premier Netanyahu: “Se arabi e Israele sono d’accordo contro Teheran, il mondo dovrebbe ascoltare”. L’irresponsa­bilità al potere.

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