Riad e Teheran in trincea
L’acuirsi della tensione tra Arabia Saudita e Iran prefigura uno scenario di destabilizzazione esteso all’intero Medio Oriente e con il coinvolgimento delle potenze che vi esercitano un’influenza strategica. Il Libano, da sempre campo di battaglia di guer
Se anche Hassan Rouhani è arrivato a dire ai sauditi: “Non siete niente. Potenze più grandi di voi si sono rotte i denti contro di noi”, significa che le cose si stanno mettendo male. Il presidente iraniano, noto piuttosto per la sua prudenza, ancora pochi giorni fa è andato diritto al centro della questione: tra Teheran e Riad è in corso un confronto per una supremazia non soltanto regionale, che combina potenti interessi geopolitici e dottrinali (questi ultimi spesso enfatizzati ad arte). Del potenziale destabilizzante della contesa si è avuta cruda rappresentazione in Siria (passando inosservato il dramma dello Yemen) la cui disgregazione ha chiamato in campo Stati Uniti e Russia, naturalmente su fronti avversi. Le alleanze formate attorno ai due capofila avevano nell’Arabia Saudita e nell’Iran i punti di forza (anche ideologica) a cui si accomodavano i rispettivi accoliti. Adesso tocca a Beirut. Le dimissioni di Saad Hariri da capo del governo libanese (sostenuto, e tenuto in ostaggio, dai filoiraniani di Hezbollah) e il suo successivo “soggiorno” forzato a Riad fanno immaginare scenari disastrosi. Annunciando, da Riad, le proprie dimissioni, Hariri ha accusato Hezbollah e Teheran di volerlo morto (come successe a suo padre Rafik, fatto saltare in aria, si dice, dal “partito di dio” su mandato di Damasco). Negli stessi giorni l’aeroporto di Riad veniva colpito da un razzo sparato dalle aree controllate dai ribelli yemeniti filoiraniani, e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman provvedeva a epurare i vertici del potere, per coprirsi le spalle in vista di uno scontro non più soltanto propagandistico con gli ayatollah. Dire Libano, è noto, significa evocare un incendio al cui confronto la tragedia siriana potrebbe impallidire. Perché se in Siria Assad, pur relegato nel ridotto di Damasco, ha mantenuto un certo controllo degli apparati di Stato, la configurazione settaria del potere condanna il Libano a implodere, scatenando i troppi “protettori” delle comunità che lo compongono. Con l’inevitabile coinvolgi-
mento di Israele, che sembra non aspettare altro. Il Libano è un vaso di coccio. I precedenti sono istruttivi, in proposito. Se infatti l’origine più prossima delle tensioni arabo-iraniane è la disgregazione della Siria, la condizione perché ciò avvenisse è probabilmente da ricercare nell’accordo sul nucleare iraniano e sugli effetti che ha prodotto. Primo fra tutti la “riammissione” di Teheran nell’elenco dei Paesi presentabili, e ciò che questo comporta in termini economici, politici e, certamente, militari. Se Benjamin Netanyahu si è speso in tutte le sedi contro l’accordo, considerandolo una minaccia esistenziale per Israele, Riad vedendo insidiata la propria leadership lo ha fatto in forma più coperta, ma con altrettanta determinazione, finché alla Casa Bianca è giunto Donald Trump. Da quando il presidente Usa ha annunciato che Teheran è tornata a essere lo sponsor principale del terrorismo, il premier israeliano e i sauditi non hanno perso tempo: una politica di “containement” non basta, e contro Teheran ne occorre una ben più assertiva. Tutta benzina, va detto, per i motori della propaganda dell’ala più oltranzista del potere iraniano, dai Guardiani della rivoluzione alla Guida suprema Khamenei. È finita, ma siamo solo all’inizio, che l’Arabia Saudita ha chiesto un incontro urgente della Lega Araba, per discutere “delle interferenze dell’Iran nella regione”. E la miccia è accesa.