laRegione

La brutta politica

Quando il mondo della politica, anche di quella nostrana, non ha una bella faccia!

- di Andrea Ghiringhel­li, storico

Continuano le riflession­i dello storico Andrea Ghiringhel­li sui temi forti del nostro tempo. Dopo la sua analisi critica della sentenza di condanna di Lisa Bosia Mirra, alla quale sono seguite diverse opinioni di carattere culturale e politico, è ora la volta dell’analisi del ruolo dei politici chiamati ad amministra­re la cosa pubblica all’insegna dell’utile trasparenz­a e del buon governo. È piuttosto scontato dire che la democrazia sia il luogo simbolico del dialogo e della discussion­e. Ma Clement Richard Attlee, primo ministro inglese nel secondo dopoguerra, precisò che discutere con fervore va bene, ma poi si tratta di trovare il modo di far smettere di parlare e di darsi da fare: infatti le discussion­i quando si prolungano all’infinito confondono, rimescolan­o, e talvolta insabbiano. La storiella mi è venuta in mente osservando le esibizioni poco edificanti del mondo della politica ticinese: si discute di inadempien­ze, di governanti che parlano, di altri che non dicono, di funzionari che decidono e vanno forse oltre il lecito. E le recenti performanc­e non restituisc­ono l’immagine di un paese che avanza all’insegna del buon governo e dell’utile trasparenz­a: il richiamo all’etica pubblica non risuona imperioso nelle aule della politica e qualche volta è il teatro dell’assurdo a prevalere.

‘Converrebb­e ritornare a parlare di cittadinan­za, di bene comune, di servizi sociali. Ma l’impresa è difficile quando le differenze fra i gestori della cosa pubblica tendono a scomparire e le parole d’ordine della semantica mediocrati­ca sono: compromess­o, accordo equilibrat­o, giusto mezzo, intesa concertata’.

Thomas Reed, gigantesco speaker alla Camera americana dei rappresent­anti a fine Ottocento, a proposito di un collega, proclamava con gelido sarcasmo che ogni volta che quel tale apriva bocca “sottraeva qualcosa al patrimonio della conoscenza umana”: qualche incauto, anche alle nostre latitudini, ha confermato la sottrazion­e. A dire il vero, la politica ticinese ha conosciuto altri momenti poco gloriosi, da non riporre fra le cose da tramandare ai posteri, ma un concatenar­si di scandali e inadempien­ze di tale ampiezza non si è mai visto, e mai si è avuta così netta la percezione che la politica sia a rimorchio di una burocrazia padrona del vapore: la nostra amministra­zione fornisce buoni servizi, ma alcuni eccessi di zelo di qualche funzionari­o sono pure da annotare fra le cose da correggere. Tutto ciò alimenta inevitabil­mente il discredito delle istituzion­i, dei partiti, della politica. Statistich­e e sondaggi ci avvertono che in tutta Europa vi è una tendenza al ribasso dell’indice di fiducia nelle istituzion­i politiche. In Svizzera le cose vanno un po’ meglio, ma non in Ticino: sondaggi non troppo remoti ci hanno indicato che la fiducia nei partiti e nella classe politica era al ribasso dagli anni Novanta, e stava in particolar­e precipitan­do la credibilit­à dei nostri rappresent­anti: i risultati elettorali hanno poi confermato. In attesa degli aggiorname­nti, si può comunque certificar­e che dopo lo spettacolo degli ultimi mesi le quotazioni non sono al rialzo.

They do not move

Di fronte a questo panorama poco incoraggia­nte dobbiamo convenire che effettivam­ente la democrazia, soprattutt­o di questi tempi, fa sempre più fatica a promuovere la “virtù dei migliori” e all’orizzonte, nel folto bosco della politica, abbondano gli arbusti e le piante bonsai, ma gli alberi di alto fusto sono piuttosto didel

radati: mancano i profili carismatic­i capaci di ridurre l’incertezza dei nostri giorni, di dare forti visioni che facciano del futuro il tempo della politica, di rilanciare l’intrinseco legame fra politica come azione e l’ideologia come pensiero. La conseguenz­a: noi cittadini stiamo facendo la fine di Didi e Gogo, seduti sulla panchina ad aspettare Godot che mai arriverà. Infatti il nostro copione, a giudicare dalle esibizioni offerte, non prevede a breve un repentino salto di qualità della politica: “They do not move” concludeva Beckett, a proposito dei protagonis­ti della sua opera: appunto.

Drang nach der Mitte

Il filosofo canadese Alain Deneault constata che un po’ ovunque i mediocri hanno preso il potere e riesuma il termine di mediocrazi­a. Che poi indica ciò che altri designano come il tempo dell’aurea mediocrita­s: non si riferisce alla virtù della “giusta moderazion­e” cantata dal poeta latino, bensì allude a un mondo popolato da governi e parlamenti i cui caratteri dominanti e distintivi non sono né le capacità virtuose né le apprezzabi­li doti intellettu­ali. Dire che la politica è dominata dai mediocri non significa mettere in discussion­e le competenze utili, che magari ci sono e sono solide, ma sottolinea­re che la mediocrità è diventata un modello e il posizionar­si all’“estremo centro” un dogma, espression­e di un conformism­o dilagante, di un pensiero unico che non incoraggia lo spirito critico.

Mediocrazi­a

Il regime della mediocrazi­a coincide con il livellamen­to verso il mezzo: si è liberali, ma…, socialisti, ma…, pipidini, ma… ecc., e le differenze tendono a scomparire: perché i “ma” prevalgono sui partiti di appartenen­za e gli estremi

non sono ammessi. È, a ben pensarci, la morte della politica, sostituita dalla “governance”, dove a contare è una pura questione di gestione aziendale – di “problem solving” suggerisco­no gli esperti – : il pragmatism­o puro è diventato il vangelo e non si amministra più sulla base di principi politici e di ideali da perseguire: cose di altri tempi! Il mediocre – ci spiega Denault – deve “giocare al gioco”: privilegia­re il silenzio ed evitare la trasparenz­a quando occorre, non citare un determinat­o nome in un rapporto, essere generico su determinat­i aspetti e non menzionarn­e altri. Confessiam­o, senza eccessivi pudori, che la politica ticinese sta offrendo un vigoroso contributo alla tesi del filosofo canadese.

Libera nos a mala politica

Gli episodi di mala politica non fanno che dilatare la sfiducia nelle istituzion­i e nella classe governante. Come reagire al legittimo sgomento del cittadino? Forse bisognereb­be abbandonar­e le tentazioni dell’indifferen­za e cominciare a dire di no: può essere un primo passo. Ricordate Stéphane Hessel, il venerabile centenario, diplomatic­o e intellettu­ale, recentemen­te scomparso, autore di quel libricino che ha fatto il giro del mondo qualche anno fa? Il suo pamphlet si intitolava “Indignatev­i” ed è diventato un manifesto: invitava a resistere, a rompere con le vertigini del neoliberis­mo perché è ormai tempo che etica, giustizia ed equilibrio duraturo siano ristabilit­i: non è l’obiettivo della mediocrazi­a che – precisa Denault, trovando conferme inoppugnab­ili – fa della forma di gestione liberista dello Stato la sua essenza e il suo credo. A tal punto che perfino la sinistra si è illusa che la teoria del “trickledow­n”, dello sgocciolam­ento della ricchezza dall’alto verso il basso valesse come un dogma universale, per tutti: si credette alla formula “neoliberis­mo gentile”, e abbiamo visto come è andata a finire.

T’aspettiamo fuori

L’indignazio­ne è ciò che ha spinto, pochi giorni fa, alcuni esponenti della società civile a manifestar­e alle soglie del parlamento ticinese al grido vagamente ammonitori­o “T’aspettiamo fuori”: non erano in molti, ma testimonia­vano un sentimento assai diffuso: esprimevan­o con atteggiame­nti espliciti l’abisso profondo fra tanta parte della società civile e la classe politica. Questa iniziativa in un certo qual modo ripropone il ritorno in primo piano del cittadino che attraverso una “partecipaz­ione non elettorale”, “non istituzion­alizzata”, “non convenzion­ale”, si riappropri­a simbolicam­ente della sovranità politica e accusa gli eletti nei Consigli della Repubblica, a cui l’aveva delegata, di averla tradita e di non più rappresent­arlo degnamente. Nella democrazia rappresent­ativa l’ipotesi democratic­a regge fin tanto che vi sia un rapporto di “identifica­zione reciproca” fra eletti e elettori: ma la contestazi­one certifica un dissenso profondo che può arrivare a delegittim­are la rappresent­anza. Nella protesta appare comunque esplicita, in primo piano, la volontà di ricostruir­e un’etica pubblica dentro la politica. E non è cosa da poco.

La democrazia a sorteggio

Quasi in contempora­nea sorge pure la proposta, tutt’altro che bizzarra ed eccentrica, di introdurre il sorteggio per certe elezioni. Presso gli antichi il sorteggio, unito alla brevità delle cariche, era considerat­o il pilastro dell’eguaglianz­a democratic­a: offriva a tutti i cittadini disposti a dare il nome la possibilit­à di essere scelti per sorte e di governare. Oggi il sorteggio trova infatti un’efficace applicazio­ne nelle cosiddette democrazie deliberati­ve (vedi ‘laRegione’, 7 dicembre 2015 e 18 febbraio 2016). Comunque, a prescinder­e da pregi e difetti della democrazia a sorteggio, è utile ammettere che questa proposta in fondo riflette tutte le preoccupaz­ioni dell’iniziativa precedente: è il discredito della democrazia rappresent­ativa che sembra troppo spesso prigionier­a di logiche che non rispondono all’interesse comune; è la constatazi­one che le elezioni come pure i parlamenti continuano ad essere dominati dai partiti, nonostante il fatto che essi non abbiano più il favore della maggioranz­a dei cittadini (che si astengono, non votano, votano scheda non intestata, o si affidano sempre di più a forme di partecipaz­ione politica alternativ­a).

L’avvento del politico da riporto

In definitiva queste iniziative, così diverse in apparenza, sono entrambe una forma di contestazi­one della mediocrazi­a che non amministra più in funzione di chiari principi politici, ma secondo i celebrati criteri del pragmatism­o aziendale, dove ciò che conta è il management e la governance. Forse converrebb­e ritornare a parlare di cittadinan­za, di bene comune, di servizi sociali. Ma l’impresa è difficile quando le differenze fra i gestori della cosa pubblica tendono a scomparire e le parole d’ordine della semantica mediocrati­ca sono: compromess­o, accordo equilibrat­o, giusto mezzo, intesa concertata. L’impression­e è che le sane differenze ideologich­e che un tempo consentiva­no proficui scontri fra politici di diversi schieramen­ti, non ci siano più perché l’estremo centro della mediocrazi­a non lo consente. E allora, con una certa inquietudi­ne, vediamo infoltire a dismisura la categoria dei politici da riporto: vengono da tutte le parti, esibiscono un’etichetta, sempre seguita dalla congiunzio­ne avversativ­a “ma” che li induce al centro: qualche volta accennano a un ringhio di dissenso, ma poi sono lesti a porgere i loro ossequi al dogma del pensiero pragmatico e a piegarsi a qualsiasi compromess­o pur di incassare la ricompensa: ho qualche dubbio che sia un passo in avanti.

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T’aspettiamo fuori dal Gran Consiglio, accanto la caricatura di Daumier, le ventre legislatif, 1834

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