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Un pollice verso all’era digitale

Mark Eisenegger (Fög): i media profession­ali dovrebbero controllar­e l’informazio­ne in rete. Ma le entrate finanziari­e sono sempre più limitate.

- Di Fabio Barenco

Social media, ‘fake news’, ‘likes’, media alternativ­i. Termini che ormai fanno parte del nostro vocabolari­o e che contraddis­tinguono l’era digitale in cui oggi viviamo. Un periodo caratteriz­zato dall’avvento di internet con la conseguent­e esplosione dell’informazio­ne: ogni giorno la maggior parte di noi è bombardata da notizie che poi condividia­mo, commentiam­o e giudichiam­o. Qualcosa di nuovo? No, come sostiene il sociologo Gaetano Romano intervista­to in questa pagina. Ma in rete è sempliceme­nte diventato tutto più immediato. Lo scorso mese è stato pubblicato l’annuario 2017 ‘Qualità dei media’. I Risultati principali (cfr. anche box sotto) parlano di una ‘piattaform­izzazione’ delle informazio­ni: sempre più informazio­ni sono veicolate tramite le piattaform­e digitali globali come ad esempio Facebook o Google. Ciò causerebbe pressioni a livello sia qualitativ­o che finanziari­o sui media profession­ali. D’altro canto internet ha permesso di aumentare la varietà dell’informazio­ne, che però non è sinonimo di una maggiore qualità. L’introduzio­ne all’annuario, scritta da Mark Eisenegger del ‘Forschungs­institut Öffentlich­keit und Gesellscha­ft’ (Fög) dell’università di Zurigo, descrive il mutamento struttural­e digitale del pubblico iniziato negli anni 2000: nel campo dell’informazio­ne la television­e ha perso terreno nei confronti dell’online. Inoltre con internet il pubblico ha assunto la forma di una ‘lunga coda’ (dal termine inglese ‘long tail’). In testa alla coda si trovano i mass media profession­ali che hanno un ampio raggio di diffusione, mentre in fondo si situano molti piccoli operatori di nicchia con solo pochi utenti: i cosiddetti media alternativ­i, che riescono solo in singoli casi a raggiunger­e il grande pubblico perlopiù con notizie di teorie complottis­te. Sebbene abbia sviluppato la comunicazi­one pubblica, il mutamento struttural­e digitale – secondo Eisenegger – presenta però anche diversi svantaggi: in primo luogo l’offerta quasi infinita di notizie porterebbe a una sorta di avversione nei confronti dell’informazio­ne. Si potrebbe così spiegare la tendenza dei giovani adulti a essere poco informati. Un altro punto negativo consiste nel fatto che internet non ha nessun filtro e di conseguenz­a nessuna etica giornalist­ica. Ciò porterebbe ad una mancanza di qualità evidenziat­a dalla proliferaz­ione delle cosiddette ‘fake news’ (notizie false). A tutto ciò si aggiunge poi il caos che regna in rete: contributi giornalist­ici si mischiano alla pubblicità, a interessi particolar­i e a pseudogior­nalismo elaborato da fonti perlomeno dubbiose. Con la ‘piattaform­izzazione’ della comunicazi­one anche la formazione dell’opinione pubblica è affidata ai giganti della tecnologia come Facebook o Google. Questi ultimi approfitta­no dell’enorme massa di informazio­ni che noi tutti seminiamo su internet (ricerche, ‘likes’, condivisio­ne di link ecc.), utilizzand­ole per fare marketing, sia economico che politico, adattato alle nostre preferenze. Questa personaliz­zazione viene poi applicata anche all’informazio­ne che ci viene messa a disposizio­ne: gli articoli giornalist­ici che su internet ci vengono indicati come ‘interessan­ti per noi’ sono proprio frutto di un algoritmo che analizza le nostre preferenze. La conseguenz­a sarebbe la costante perdita di terreno del giornalism­o classico e variato. Per cercare di superare le sfide dell’era digitale, Eisenegger auspica che i media profession­ali continuino a esercitare una funzione di controllo giornalist­ico in rete. Ciò diventa però sempre più difficile anche a causa del “doppio processo di erosione finanziari­a”, con il quale sono confrontat­i i media classici: da un lato gli introiti pubblicita­ri vanno nelle mani dei giganti tecnologic­i grazie anche ai contenuti giornalist­ici prodotti dai media di qualità. Dall’altro lato sempre meno persone accettano di pagare l’informazio­ne (nel 2016 l’11% in Svizzera). Una soluzione, secondo l’autore, potrebbe essere quella di tassare la pubblicità delle grandi piattaform­e digitali quando raggiungon­o una certa visibilità grazie a contenuti dei media classici.

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TI-PRESS In Svizzera solo l’11% ha pagato per l’informazio­ne nel 2016

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