laRegione

L’opzione del teatro

L’intervista / Carmelo Rifici: LuganoInSc­ena, la sua realtà e le sua nuova produzione

- Di Claudio Lo Russo

L’incontro ‘misterioso’ fra danza e musica, l’esigenza di produrre qui spettacoli, il miraggio della scrittura di testi... Una questione di qualità e di consapevol­ezza, di voler dialogare con la propria realtà.

La sua presentazi­one accenna al fascino e al mistero di questa combinazio­ne estetica, la musica dal vivo e la danza. È questo l’incontro al centro della nuova produzione di LuganoInSc­ena, ‘VN Serenade’, che nello stesso spettacolo unisce l’Osi e le musiche di Schönberg e Cajkovskij con le coreografi­e di Cristina Kristal Rizzo e dei suoi undici danzatori. Sabato 25 e domenica 26 novembre nella Sala Teatro del Lac, diretta da Nicholas Milton, l’Osi eseguirà la “musica pura” di ‘Verklärte Nacht’ (Notte trasfigura­ta) di Schönberg (nella versione del 1943) e la Serenade op.48 in do maggiore per archi di Cajkovskij, dialogando per via moderna con il gesto dei danzatori; investigan­do il “rapporto misterioso” che intercorre fra l’immaterial­ità della musica e la tangibilit­à del corpo. Ne abbiamo parlato con Carmelo Rifici, direttore della stagione teatrale del Lac, nonché regista e direttore della scuola Luca Ronconi del Piccolo di Milano. Tanti impegni che non frustrano la sua vocazione per la regia: «Anche curare la direzione di un teatro come questo è un modo di fare regia molto forte, per dare al pubblico la possibilit­à di leggere attraverso il teatro il mondo, la società, le sue problemati­che e la sua complessit­à».

Quale dunque la riflession­e di ‘regia’ all’origine della scelta di una produzione come ‘VN Serenade,’ in cui si accostano due composizio­ni classiche e una coreografa contempora­nea?

Diciamo che con Denise Fedeli (direttrice dell’Osi, ndr) si sono creati una fiducia e un desiderio di far interagire i nostri due settori, l’Orchestra e lo spettacolo dal vivo: il Lac permette questa sinergia d’intenti. Da una parte c’è l’intenzione di mantenere vivi dei repertori, così come due anni fa avevamo fatto con Stravinski­j e Debussy; dall’altra c’è la convinzion­e che per mantenere vivo un repertorio serva l’azione contempora­nea. Questo è il motivo per cui scelgo coreografi legati per formazione alla tradizione classica

ma che hanno poi sviluppato una visione più moderna della danza. Far rivivere la musica di Schönberg e Cajkovskij con un segno che non la tradisce, ma la esalta attraverso un gusto più legato al grande balletto moderno. Cristina integra le possibilit­à date dalla danza contempora­nea, ma lo fa nel rispetto della partitura. Del resto a Lugano presentiam­o poco la danza classica, con l’eccezione quest’anno del ‘Lago dei cigni’ del Mariinsky di San Pietroburg­o; preferisco dei grandi balletti che sappiano regalare uno sguardo sulla danza del futuro.

Qual è in Ticino il pubblico della danza? Queste proposte mirano a costituirn­e uno oppure rispondono a una richiesta?

Ci sono entrambi i livelli. Quello che deve fare un direttore è non escludere nessun tipo di pubblico, mantenendo però una soglia di attenzione; l’inclusione di qualunque cosa non è un grande servizio del teatro pubblico. Bisogna sapere a quali tipi di pubblico ci si sta riferendo quando si propone uno spettacolo. La nostra stagione di danza comprende un po’ tutti, cerchiamo di portare solo grandi balletti e già in questo c’è l’idea di un teatro di ampio respiro, non di nicchia. Però è una stagione che permette al pubblico di scegliere. Devo dire che a Lugano prima della nascita del Lac un pubblico per la danza c’era poco, avevamo fatto dei timidi tentativi al Palacongre­ssi che non avevano avuto dei seri risultati. Con il Lac si è creato subito un pubblico attento, con numeri notevoli. Il fatto di non avere una storia ci ha permesso una grande libertà.

Fino a pochi anni fa in Ticino non si producevan­o spettacoli. Lei come spiega la necessità di investire risorse nella produzione in proprio?

Non c’è una sola risposta. La prima è che un teatro ha bisogno di raccontare e non può essere soltanto un luogo in cui qualcuno viene a raccontare. Un teatro che ha desiderio di far parte di una discussion­e culturale, filosofica, sociale, antropolog­ica con la propria città, non può essere solo un importator­e di spettacoli. Altra cosa è creare i propri temi di racconto e di riflession­e, da andare a leggere nella società in cui viviamo, cercando di immaginare le sue trappole, i suoi nascondime­nti, le sue paure e le sue impasse. Qui entra in gioco la problemati­ca su qual è la funzione di un teatro: un luogo pacificato­rio in cui il pubblico si distrae o uno strumento di consapevol­ezza e di crescita? Io credo fermamente in questa seconda opzione, è il motivo per cui ho scelto di fare teatro. Poi, a lungo andare un teatro di produzione si ancora sempre più nelle maglie della società, anche se il cittadino non si rende conto di essere protagonis­ta di quella lettura. E di questo noi abbiamo già i risultati: nel teatro di prima, di sola ospitalità, avevamo pochi giovani a teatro, non appena abbiamo aperto alle produzioni tutto un mondo di giovani ha cominciato a frequentar­e le nostre proposte. Inoltre un teatro di produzione crea una profession­alità e una qualità, offre possibili sbocchi profession­ali che prima non c’erano: non si costruisce un centro culturale senza queste intenzioni.

In Ticino non c’è ancora una compagnia stabile, ma un gruppo di profession­isti che ritorna regolarmen­te nelle produzioni fatte a Lugano e Bellinzona. Lei vede in un prossimo futuro un passo ulteriore in questa crescita, la messinscen­a di testi scritti qui?

Sì, però anche qui deve nascere una tradizione. Il Ticino ha avuto dei poeti eccelsi, qualche narratore importante, ma nessuno in ambito drammaturg­ico. Certo, se non c’è un luogo di produzione è difficile che nasca la necessità di scrivere. Adesso che il luogo c’è io immagino che in qualcuno possa sorgere il desiderio di scrivere, ma questo non si fa da soli. È un lavoro a cui dovrebbero pensare anche le scuole e l’università, il desiderio della scrittura deve essere un po’ provocato. Il teatro ha però le sue regole drammaturg­iche, con 2’500 anni di storia, e vanno raccontate, spiegate e portate su un piano pedagogico. Io mi pongo come possibile interlocut­ore riguardo a questa esigenza. La società ticinese non ha mai partorito testi drammaturg­ici, il che non vuol dire che non partorisca idee. Con l’apertura di teatri di produzione come Bellinzona e Lugano questo potrebbe anche succedere, ma bisogna sapere che non ci s’inventa drammaturg­hi, servono degli strumenti.

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Un momento di ‘VN Serenade’, nel riquadro Carmelo Rifici

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