Metamorfosi di una scrittrice
Il 23 novembre al Lac la curatrice e Andrea Fazioli presentano ‘Cronache da Buenos Aires’
Di Alfonsina Storni nel natio Ticino è nota soprattutto l’opera poetica; ora un libro curato da Hildegard Elisabeth Keller esplora le sue prose giornalistiche, in cui osserva con humour una prosaica realtà moderna, da riscoprire...
Quando si parla di Alfonsina Storni non si può che seguire la trafila consueta, tanto la sua biografia è costellata da circostanze che pare inevitabile citare. È doveroso allora ricordare come, a 4 anni, è migrata da Sala Capriasca oltreoceano, evocare il suo lavoro in fabbrica, ipotizzare chi potrebbe essere il padre del suo bambino, spendere qualche parola sulla sua modernità di donna emancipata nell’Argentina del primo ’900; a questo punto è lecito concedersi un paragrafo di lirismo, profondendosi nella cronaca della sua morte in mare (almeno una metafora acquatica è d’obbligo). Ma (e non è per decretare, ancora una volta, che l’autore è morto – notizia nota; e qui trattasi, d’altra parte, d’autrice, di cui il decesso non s’è ancora registrato) perché non tentare, invece, di parlare di lei attraverso le sue opere? Tanto più che da poco disponiamo di un libro che esplora una parte del suo lavoro finora inedita in italiano: le prose giornalistiche. ‘Cronache da Buenos Aires’ (Casagrande), a cura di Hildegard Elisabeth Keller e ben tradotto da Marco Stracquadaini, integra il quadro offerto dalle raccolte dei suoi scritti poetici (ricordo ‘Vivo, vivrò sempre e ho vissuto’, Ulivo, e ‘Poemas de amor’, Casagrande).
Poesia d’amore, con umore
Nel 1925 Borges decretava che alle poetesse “piacciono gli astri, i roseti, i crepuscoli con uccelli, le violette. Commuovono noi maschi, obbligati al verso riflessivo e alla parola austera, questi giocattoli che tanto giustamente si accordano alla bellezza delle ragazze”. Non è da escludere che, con l’accenno ai roseti, alludesse proprio a Storni, che aveva esordito nel 1916 con ‘La inquietud del rosal’ e nei primi libri non lesinava astri e vegetali, a far da vago scenario, di stampo ancora ottocentesco, allo struggimento amoroso. Se apparentemente in quei versi Storni si adeguava ad affrontare i pochi temi che l’opinione comune considerava adatti alle scrittrici (amore in primis: “Non avrò parole, non avrò desideri, / Solo saprò amare”), tra essi si affacciano grida eversive (“non ho potuto esser come le altre, io / col giogo al collo”) e spunti ironici; per non dire che quel che sembra interessare di più Storni, nel tema amoroso, è lo spazio che offre all’esplorazione dell’interiorità. Nei ‘Poemas de amor’ (1926) è evidente: “Amo! Amo!… Voglio correre sulla terra e d’una sola corsa girarvi intorno […]. Scostati”. Tanto poco conta la figura dell’amato che è esortato a scostarsi; e d’altra parte l’amante dice “Amo”, non “Ti amo”… L’amore è quindi un pretesto per scoprirsi, amarsi (“accarezzo gli occhi che ti hanno guardato”), aprirsi alla vita (“Perché amo […] se non per fare qualcosa di grande […]?”); ponendo l’accento sulla scoperta di sé, Storni già critica sottilmente quelle che chiamava le “dolci e al tempo stesso raggelanti tenaglie del patriarcato”.
Bozzetti femministi
La critica si fa esplicita negli articoli di ‘Cronache da Buenos Aires’, tratti dalle rubriche – ufficialmente femminili, ma più che altro femministe – che tenne per il settimanale ‘La Nota’ e il quotidiano ‘La Nación’ tra il 1919 e il 1921. Mescolando denuncia sociale, cronaca di costume e uno stile vaporoso come cipria, i pezzi si spalancano su ciò che nei versi si affaccia solo di rado: la Buenos Aires metropolitana, nel suo sferragliare di tram, ronzare di linee telefoniche, ticchettare di dattilografe. E proprio a dattilografe, professoresse, manicure, emigrate e molte altre è dedicata una notevole parte degli articoli, a comporre un atlante di tipi femminili emergenti. Ma i giornali sono anche un laboratorio dove Storni azzarda temi e toni lontani da quelli che ispirano la sua poesia. Che ne sia consapevole è detto chiaramente nel suo esordio su ‘La Nota’, dove narra come il caporedattore (l’“Emiro”) l’abbia assunta: “Una pioggia persistente batte sui vetri, e io sono andata leggendo, nel tragitto, notizie sulla vita di Verlaine. Alla domanda che mi rivolgono: «Lei è povera?», ho voglia di rispondere: «Emiro, io faccio versi…». Ma in quel preciso momento guardo la luce elettrica, la quale mi suggeri- sce una quantità di cose: l’epoca moderna […], l’igiene, la guerra all’alcol, le teorie vegetariane, eccetera. E di colpo comprendo che devo vivere nel mio secolo. Ammazzo il romanticismo che mi è stato comunicato da Verlaine e dal giorno piovoso, e scegliendo il mio sorriso più disinvolto (ne ho molti), rispondo: «Così così, Emiro. Ci arrangiamo»”. I lettori sono avvertiti: nella rubrica Storni accantonerà le note soffuse, romantiche, ottocentesche della sua poesia per calarsi con humour e schiettezza nella prosaica realtà moderna. Esplorandola si imbatte però, con divertita meraviglia, in parentesi poetiche: un’acquerellista “specializzata in cieli”, la rivelazione della bellezza di una mano: “Il tessuto che forma le mani e che si assottiglia, come una rosata porcellana, sui delicati polpastrelli ebbe senza dubbio, nei suoi iniziali connubi con la materia informe, un’affinità elettiva con i petali delicati”. L’indagine del corpo inaugurata, un po’ per gioco, nella rubrica si sostanzierà nelle sue ultime raccolte poetiche, le più sperimentali; in ‘Mascarilla y trébol’ (1938) sviscera ad esempio i segreti dell’orecchio: “Piccolo fosso d’iridate conche / e avori già morti, con striature / in controluce; misteriosa valva / volta in caverna nelle alture tristi // del collo umano; rosea conchiglia”. Siamo in pieno modernismo: il corpo viene frammentato, la poesia affidata al libero concatenarsi delle suggestioni, con l’orecchio che si trasforma in conchiglia e caverna, come nel surrealismo. D’altra parte, Storni aveva da sempre una predilezione per le metamorfosi: già nel 1918 scriveva: “So che, già colomba, pesante cipresso, / o cespuglio fiorito, piansi e singhiozzai”; versi dove l’io muta forma per esprimere le sfumature della disperazione. Sulle pagine de ‘La Nación’, altre metamorfosi si operano: non solo l’autrice si trasforma nell’asiatico Tao Lao, suo pseudonimo; si trasfigura anche in un albero, un foglio, nella lingua francese. All’insegna della metamorfosi è anche il suo rapporto con i generi letterari a cui attinge. Se si adatta a far proprie forme narrative ritenute congeniali alle donne (la poesia d’amore, la rubrica femminile), i suoi scritti, che a una prima occhiata sembrano conformarsi a questi modelli, subito si trasformano in altro. La rubrica femminile si fa femminista, la poesia d’amore si fa scoperta di sé. Così la metamorfosi diviene via di fuga dalle “tenaglie” sociali: come scrisse, “il mimetismo è la forma più pratica del vivere”…