L’attimo è cruciale
Ci siamo lasciati ieri, con l’appuntamento fissato a sabato 2 dicembre, giorno del debutto tra i professionisti di Marzio Franscella, 28enne pugile ticinese che ha costruito la propria carriera sportiva con 70 match tra i dilettanti (40 vittorie), tutti c
Sono tre i protagonisti di questa chiacchierata. Tre personaggi che, con modi e compiti diversi, al mondo della boxe consacrano una parte importante della loro vita: Marzio Franscella, tecnico (settore metalcostruzioni), portiere mancato (per scelta), pugile dal 2007; papà Marco, anima del Boxe Club Ascona ereditato dal compianto Michele Barra; Alfredo Farace, allenatore e maestro di Vissia Trovato, tra i fautori del passaggio al professionismo di Marzio, non più giovanissimo ma ancora in grado di togliersi qualche bella soddisfazione.
Non è troppo tardi
«No – garantisce Alfredo – non è troppo tardi. Contrariamente alla realtà dei dilettanti, il professionismo punta sulla qualità dei match. Le classifiche mondiali sono date dagli avversari che affronti, e dal risultato. Puoi arrivare in alto anche a 30 anni, dopo sei o sette match. Così come dopo dieci anni di attività ti puoi ritrovare in fondo. Vissia Trovato (campionessa intercontinentale Wba pesi piuma, ndr) al secondo incontro ha battuto subito un’avversaria molto forte, ed è entrata nelle migliori venti. Ci sono ragazze che fanno un sacco di combattimenti e sono ancora lontane. Conta la qualità, non la quantità. Con una piccola serie di match, fatti bene e programmati con raziocinio, si può arrivare nei cento. L’età non conta. Il cinquanta per cento dei campioni del mondo ha più di 35 anni. Il pugilato è cambiato. Una volta si diventava professionisti prima, perché c’era bisogno di guadagnare. Va però detto che la carriera finiva anche presto. Il pugile di 32 anni era vecchio. Ora a quell’età sono nel pieno della carriera, anche perché si combatte meno. Gli allenamenti sono diversi, il fisico si logora meno. «Non per forza uno che era molto bravo nei dilettanti – interviene Marco Franscella – ha poi fatto carriera nei professionisti. Ma è successo che gente che nei dilettanti non aveva mai vinto niente, poi nei “pro” ha fatto carriera». Dilettanti e professionisti, due realtà diametralmente opposte. «Sono due mondi diversi – commenta Alfredo, che bene li conosce entrambi –. La boxe dilettantistica non vive del pubblico che porta a bordo ring. Vive con i soldi del comitato olimpico e delle federazioni. I tornei delle nazionali non vengono pagati dagli spettatori. Non c’è pubblico, ci sono solo addetti ai lavori. La boxe professionistica è mantenuta dallo spettatore. Se non emoziona, non paga, per cui è una boxe totalmente diversa. I pugili più pagati sono quelli che emozionano di più. Non sono per forza sempre i più bravi, ma sono quelli che attirano più pubblico. Sono due boxe diverse perché i soldi vengono da due realtà diverse».
È uno sport per pochi
«Non voglio enfatizzare il pugilato – aggiunge Marco –, ma il ring non è per tutti. La percentuale che riusciamo a portare sul ring è bassissima. Tra quelli che ci salgono, alcuni scendono presto. Va bene se su cento ragazzi che alleniamo, uno colleziona un certo numero di incontri. Le crisi, nella boxe, sono veramente crisi, perché si prendono botte, botte vere. Se fai un brutto incontro, non è come nel tennis che becchi 6-0. Vieni preso a pugni in faccia». «E le prendi davanti a tutti – rincara Farace –. Ti metti in gioco totalmente. È come un gioco d’azzardo, con te stesso come posta, la tua personalità. Il tuo orgoglio. Finché vinci, tutti amici. Quando perdi, diventi una nullità. In tanti altri contesti è così, ma nella boxe è ancora più marcato: hai proprio perso, ti hanno picchiato. Non hai preso un palo, giocato bene e perso perché l’altro ha fatto un gol. Nel pugilato, se hai perso è perché hai preso le botte. Ecco perché è uno sport per pochi. Pochi hanno il coraggio di esporsi, di mettersi in gioco a titolo personale. È una cosa ancestrale, profonda: se non sei solido, non fa per te».
Apparire più che essere
Cambia per il pugile, nel professionismo. Ma cambia anche per il maestro... «A livello di carico di allenamenti cambia molto. A cinque settimane dal match mutano più che altro le distanze. Il ritmo si abbassa, ma i tempi si allungano. Cambia molto anche l’impostazione mentale. Da dilettante hai nove minuti per dare il massimo, fare più punti possibili e cercare di impressionare la giuria. È difficile, devi apparire, più che essere. Da professionista, per contro, hai più tempo. Devi fare male. L’obiettivo è demolire l’avversario prima della fine dell’incontro. È questo che mi prefiggo come obiettivo con i miei pugili: capire come scardinare le difese dell’avversario, ma con tanti round a disposizione. Non mi interessa se perdi un round. Mi interessa il lavoro di demolizione i cui frutti si raccoglieranno nel round successivo. Nei dilettanti il match è finito subito. Cambia la tattica, insomma, in maniera drastica».
Tregua alternata a intensità
«Sarà più facile gestire la cadenza degli incontri – interviene Marzio –. Ne affronterò tre o quattro all’anno, con date stabilite. Diventa più semplice programmare un lavoro mirato». Riecco Farace: «A livello mentale diventa più interessante. Chi combatte ha bisogno di momenti di distacco e di momenti in cui ci si deve immergere nel ruolo di pugile a tempo pieno. Non è un ruolo che puoi ricoprire per dieci mesi all’anno, è impossibile. Se alterni attimi di tregua ad altri di massima intensità, riesci a lavorare meglio. A livello mentale, stacchi, ma quando entri nel clima allenamenti duri, dai il meglio, poi disputi il tuo match, festeggi, e riprendi il programma. È più gratificante e meno stressante. Per farla bene, la boxe la devi fare quando te la senti, quando ne hai davvero voglia».
Una cosa sola
Il feeling con il maestro è essenziale. «Quando sei sul ring – spiega Marzio – la boxe è uno sport individuale. Sei solo con te stesso, è innegabile. Ma quando sei in palestra, se non c’è qualcuno che ti sprona e ti incita a non mollare, è dura». «Senti solo una voce, sul ring – suggerisce Marco –. C’è un filo diretto con l’allenatore». Ed eccolo, l’allenatore. La sua analisi è bellissima. «Se c’è feeling con il maestro e con l’ambiente, riesci a rendere, e a fare cose che altrimenti non faresti. A volte non conta tanto la bravura dell’atleta, bensì la sintonia che c’è tra lui e l’allenatore. Non è una questione di bravura del maestro. Si tratta proprio del modo in cui riesce a guidarlo. Se io riesco a fare le cose che faccio con Vissia (Trovato, ndr), è perché siamo una persona sola. Quando è sul ring, sono con lei. Vedo le cose che vede lei, e quindi riesco ad agire in tempo reale. Quando con un pugile ho questo tipo di feeling, le cose funzionano a meraviglia. Con Marzio c’è, ma ancora non si esprime al massimo. Deve ancora smussare un pizzico di diffidenza, tipico del suo carattere. Deve imparare a non filtrare le informazioni che riceve da chi lo guida. Le deve prendere e agire senza pensare. Con suo fratello Alessio (pugile dilettante avviato a una buona carriera, ndr) riesco bene, con Marzio ci sto arrivando. Nel momento in cui non ci sarà più questo filtro, farà il salto di qualità. L’attimo è cruciale, nella boxe. L’esitazione non va bene. È un lavoro che stiamo facendo da un po’. Se riusciremo a completarlo, saremo in grado di ribaltare anche situazioni apparentemente compromesse. Io suggerisco, e il pugile esegue. Se perde l’attimo, è finita. A volte non so nemmeno io perché chiamo quel colpo, ma quel colpo poi arriva. Quando i match sono duri, a volte serve anche un po’ d’inventiva. Se vedo lo spiraglio, devo riuscire a comunicarlo al mio pugile, affinché vi si infili per tempo».
Stima necessaria
Feeling, d’accordo. Ma non mi si venga a dire che non avete mai voluto prendervi a pugni, a volte... «Mi sono abbandonato completamente ai suoi consigli, anche per la dieta da seguire», si smarca Marzio. «Non so lui, ma a me è capitato di volerlo prendere a pugni. Sai quando? Nelle circostanze in cui ero certo che avesse il potenziale per stravincere, ma subiva. Una volta ho fatto fatica a non prenderlo a schiaffi. Stava perdendo contro un avversario improbabile. Alla fine ha vinto. Ci tengo: non riesco ad allenare chi non stimo. Se stimo qualcuno, lo alleno bene. Marzio ha la mia stima, ma pugilisticamente è capitato che non si sia dato il valore che invece ha. È una cosa che mi irrita, e tiro fuori il lato di me più aggressivo. Marzio ha bisogno di essere spronato, ha bisogno di attenzione, di una guida. Tende a sedersi. Il mio compito è quello di accompagnarlo. A volte ho troppi pugili da seguire, e devo diluire le mie energie. In riunioni in cui ho solo un paio di atleti cui riservare la mia attenzione, per loro si fa dura. Devono andare, e andare veloce. La boxe è fatta così: è il pugile a prenderle, ma l’incontro lo viviamo in due».