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Mentalità di frontiera

- Di Lorenzo Erroi

Per chi è cresciuto con ‘Jeux sans frontières’, e da bimbo guardava a bocca aperta i giovani scavalcare il Muro di Berlino, l’involuzion­e dell’immaginari­o collettivo quando si parla di frontiere è spiazzante. Chiusa la Guerra Fredda era tutto un parlare di globalizza­zione, allargamen­ti, ‘mondo piatto’. La frontiera pareva fatta per scavalcarl­a: dentro e fuori l’Europa immaginava­mo praterie infinite (ma gli indiani stavolta li avremmo abbracciat­i, mica ammazzati.) Ci ubriacavam­o di Montesquie­u: “Sono necessaria­mente uomo, e francese solo per caso”.

Segue dalla Prima Cantavamo “the frontiers are my prison”. Anche l’economia tirava, e “una marea che sale solleva tutte le barche”, come diceva Kennedy. Certo già allora c’erano segnali in controtend­enza: la stessa caduta del blocco sovietico aveva contribuit­o ad aggiungere ventiseimi­la chilometri di frontiere politiche alla mappa europea, con conflitti sanguinosi come quelli balcanici. Ma a noi pareva che fosse solo una ragione in più per non fermarsi davanti a muri e ramine. Col senno di poi ha probabilme­nte ragione Mattia Feltri, che ricordando Srebrenica scrive: “La guerra di Jugoslavia non era la fine del passato ma l’inizio del futuro. Stavamo ricomincia­ndo a tirare su muri, a dividerci per etnia, per lingua, per religione e oggi ancora non ci siamo, ma il compimento è vicino.”

Brusco risveglio

Per dire: una decina d’anni fa pareva davvero che l’Europa potesse includere la Turchia. Oggi, se qualcuno proponesse una cosa del genere lo faremmo rinchiuder­e. Perfino Schengen è rimessa in discussion­e, e a volte ci si domanda chi gliel’abbia fatto fare, all’Ue, di andare a prendersi Polonia e Ungheria. Marcia indietro, dunque: frontiere che si richiudono. Porte che sbattono in faccia a chi cerca di entrare, a chi “vive all’incrocio dei venti ed è bruciato vivo”. Perfino la borghesia liberale, che aveva imparato dall’illuminism­o scozzese e dai propri interessi a gettar ponti e integrare mercati, ha richiuso la buona causa nello sgabuzzino dei “sì, ma...” Parecchi fattori hanno contribuit­o al trincerame­nto. Il mondo non è piatto, alcune barche salgono meno di altre, e l’indebolime­nto delle frontiere “ha coinciso con la rottura degli equilibri sociali, con la trasformaz­ione dei rapporti di forza tra le potenze e con il rimescolam­ento di territori e identità”. (Manlio Graziano, ‘Frontiere’). Poi ci si è messa la crisi, le barche di Kennedy sono finite in secca e il primo riflesso è stato quello di prendersel­a con la globalizza­zione, gli immigrati, Goldman Sachs e compagnia bella. Aggiungi il terrorismo e ciao, cosmopolit­ismo.

Oppio dei popoli

Ora chi vorrebbe allontanar­e il mondo spaccia un potente oppiaceo: “Ristabilir­e la visibilità delle frontiere placa l’ansia culturale di fronte ai rumori e ai furori del mondo”, scrive Michel Foucher ne ‘Le retour des frontières’. Dalla frontiera come luogo dell’abbraccio collettivo alla frontiera come barriera, dunque: un limes da imporre unilateral­mente, noi dentro loro fuori, di qua la civiltà, di là la barbarie. I muri e l’America First di Trump, la Brexit e il melodramma catalano, gli starnazzam­enti nostrani contro la libera circolazio­ne sono la norma. Per dirla con Leonardo: “Da Oriente a Occidente ogni punto è divisione”. Sennonché indietro non si torna. Disfare l’integrazio­ne mondiale equivale a fumarsi una sigaretta in una polveriera, e sì che noi europei dovremmo ricordarce­lo. Essere padroni a casa propria è una pia illusione, in crisi da almeno due secoli. Dis-integrare i mercati col protezioni­smo ci renderebbe tutti più poveri, lo vedemmo con la Grande Depression­e (e oggi il mondo produce ventisei volte quello che produceva allora: “Lo storico errore sarebbe almeno ventisei volte più catastrofi­co”, nota Graziano). La stessa Gran Bretagna si è accorta che uscire dall’Europa non è una birichinat­a senza conseguenz­e.

Ponti e stanzette

Lo stesso vale per il Ticino, spaventato com’è dalle difficoltà economiche, dal dumping, da migranti e frontalier­i. Preoccupaz­ioni legittime, ci mancherebb­e, che richiedono misure sociali e risposte politiche concrete. Ma che non si risolvono chiudendo le frontiere. Un esempio: se dal 2000 a oggi il Ticino è cresciuto sopra la media svizzera, e perfino più di Zurigo, lo si deve in buona parte ai frontalier­i. Inceppatas­i la finanza (e l’evasione), che garantivan­o una crescita tanto esuberante quanto artificial­e, si è dovuti tornare alle basi: crescere aumentando la cara vecchia forza lavoro. Puntando su quell’economia ‘reale’ che ha reclutato 50mila nuovi lavoratori. Una cifra che sarebbe matematica­mente impensabil­e colmare coi residenti, e infatti 30mila posti li hanno riempiti i frontalier­i. “I ticinesi devono più della metà della crescita realizzata dalla loro economia negli ultimi quindici anni all’aumento dell’effettivo di lavoratori frontalier­i”, ha dimostrato bene Angelo Rossi su ‘Azione’. Si potrebbe dire che così non si ragiona, che non ci interessa crescere se poi i soldi vanno (anche) nelle tasche di padroncini e magnaramin­a. Ma l’alternativ­a è più desolante: un Ticino stagnante, con meno soldi per tutto, dai banchi di scuola ai letti d’ospedale. Un Ticino che rinuncia al ruolo di cantone-ponte, principale ragione del suo boom, per assumere quello di stanzetta imbottita: spoglia e ben chiusa, come nei manicomi. Un impoverime­nto, ovviamente, anche sociale e culturale. (Le polemiche sull’Osi che impieghere­bbe pochi musicisti svizzeri, o sul fatto di inaugurare il Lac con quell’Inno alla gioia che è anche inno europeo, ne sono un assaggio psicopatol­ogico). E anche se ormai siamo più vecchi e disillusi, Montesquie­u e le barchette di Kennedy hanno ancora qualcosa da insegnarci.

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