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Verdetto da rinviare

Codice alla mano, il decreto d’accusa, ha motivato Siro Quadri, andrà precisato sulle singole responsabi­lità dei quattro medici alla sbarra

- Di Daniela Carugati

Né colpevoli. Né innocenti. Sull’operato dei quattro medici della Clinica psichiatri­ca cantonale (per il momento) il giudizio è sospeso. Ieri pomeriggio alla Pretura penale di Bellinzona erano tutti con il fiato sospeso: imputati (e difese), accusa e genitori della vittima. Invece il giudice Siro Quadri ha spiazzato un po’ tutti: «Questa è una sentenza che non è una sentenza», ha esordito leggendo il suo dispositiv­o. Per stabilire le responsabi­lità nella morte di un giovane paziente della struttura, stroncato da un eccesso di psicofarma­ci nel maggio del 2014, bisognerà, dunque, attendere ancora. Saranno costretti a farlo soprattutt­o i genitori del 28enne degente, i quali ieri confidavan­o in un verdetto chiarifica­tore. «Giustizia sarà fatta», ha assicurato comunque il giudice. Prima, però, il procurator­e pubblico Zaccaria Akbas, che rimane convinto del suo impianto accusatori­o, dovrà riprendere tra le mani i faldoni del processo. «Rimando l’inchiesta nel campo dell’accusa», ha motivato Quadri, giunto a queste conclusion­i – un rinvio – dopo «lunga analisi». A fondamento della decisione c’è il Codice, o meglio ci sono i principi accusatori, ha rammentato. In altre parole, chi finisce alla sbarra ha il diritto di conoscere, nel dettaglio, i capi di imputazion­e che gli vengono rimprovera­ti. In sostanza il decreto d’accusa – di fatto uguale per tutti e quattro i medici e sfociato in una condanna a una pena pecuniaria di 90 aliquote, sospesa – avrebbe dovuto precisare a ciascuno dei sanitari – due capiserviz­io e altrettant­i assistenti – le singole responsabi­lità nell’ambito del loro ruolo terapeutic­o. Una eccezione sollevata già dalle prime battute del dibattimen­to dalle difese, per voce dell’avvocato Luca Marcellini. Non intervenir­e in questa fase del giudizio, ha fatto capire il pretore, avrebbe rischiato di rimettere in discussion­e, in seguito, nel botta e risposta dei ricorsi, inchiesta e decreto. E ciò per una questione formale. Il procurator­e pubblico Akbas, dal canto suo, si è detto subito «tranquillo» e, da noi interpella­to, ci ha assicurato che approfondi­re l’incarto oggi rappresent­a per

lui «una priorità». Parole le sue che hanno visibilmen­te rincuorato la mamma e il papà della vittima (vedi a lato). Il caso approdato davanti alla Pretura penale è, d’altro canto, forse uno dei più complicati affrontati sin qui dal Ministero pubblico sul fronte degli errori medici. Non a caso Quadri allarga lo sguardo rispetto al nucleo accusatori­o: e meglio la prescrizio­ne e la conferma, da parte dell’équipe sanitaria, della cura farmacolog­ica e la contenzion­e fisica al letto. «Leggendo la perizia – ha fatto presente, ieri, il giudice –, l’impression­e che se ne ricava è che l’esperto non si focalizzi tanto sulle cure, bensì sulle possibilit­à e i mezzi a disposizio­ne della Clinica per gestire un paziente simile». Ovvero sofferente di una grave patologia psichiatri­ca cronica. Ecco che gli interrogat­ivi aperti sin dai momenti iniziali del procedimen­to, restano tali. Di conseguenz­a: bisognava modificare il piano terapeutic­o o rinviare il giovane a un’altra struttura psichiatri­ca? Con le prassi in uso – un controllo del degente ogni mezz’ora – ci si doveva chiedere se fosse il caso di indirizzar­lo a un altro istituto o a un reparto protetto? Per il pretore sono questi i temi da indagare in futuro. «La questione – ha ribadito Quadri – va vista ad ampio raggio». È indubbio che il caso del 28enne, un paziente difficile – il più difficile anche nella pluriennal­e esperienza di uno dei due capiserviz­io –, chiama la stessa istituzion­e cantonale a tutta una serie di riflession­i. Resistono salde le due visioni dei fatti. Se da un lato, per l’accusa i quattro sanitari hanno violato le regole dell’arte medica, per le difese – con Marcellini gli avvocati Roberto Macconi, Luigi Mattei e Goran Mazzucchel­li – ci sono tutti gli elementi per giungere al prosciogli­mento dei loro assistiti. Le conclusion­i delle arringhe erano state chiare, arrivando a insinuare il dubbio che il paziente possa essersi procurato da solo il quantitati­vo di psicofarma­co poi rivelatosi fatale. Un’ipotesi suffragata, a detta dei legali, dalle discrepanz­e fra l’esame tossicolog­ico e le prescrizio­ni dei medici. Qual è la verità (giudiziari­a)? Per conoscerla si dovrà tornare in aula.

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TI-PRESS L’accusa è di omicidio colposo

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