Verdetto da rinviare
Codice alla mano, il decreto d’accusa, ha motivato Siro Quadri, andrà precisato sulle singole responsabilità dei quattro medici alla sbarra
Né colpevoli. Né innocenti. Sull’operato dei quattro medici della Clinica psichiatrica cantonale (per il momento) il giudizio è sospeso. Ieri pomeriggio alla Pretura penale di Bellinzona erano tutti con il fiato sospeso: imputati (e difese), accusa e genitori della vittima. Invece il giudice Siro Quadri ha spiazzato un po’ tutti: «Questa è una sentenza che non è una sentenza», ha esordito leggendo il suo dispositivo. Per stabilire le responsabilità nella morte di un giovane paziente della struttura, stroncato da un eccesso di psicofarmaci nel maggio del 2014, bisognerà, dunque, attendere ancora. Saranno costretti a farlo soprattutto i genitori del 28enne degente, i quali ieri confidavano in un verdetto chiarificatore. «Giustizia sarà fatta», ha assicurato comunque il giudice. Prima, però, il procuratore pubblico Zaccaria Akbas, che rimane convinto del suo impianto accusatorio, dovrà riprendere tra le mani i faldoni del processo. «Rimando l’inchiesta nel campo dell’accusa», ha motivato Quadri, giunto a queste conclusioni – un rinvio – dopo «lunga analisi». A fondamento della decisione c’è il Codice, o meglio ci sono i principi accusatori, ha rammentato. In altre parole, chi finisce alla sbarra ha il diritto di conoscere, nel dettaglio, i capi di imputazione che gli vengono rimproverati. In sostanza il decreto d’accusa – di fatto uguale per tutti e quattro i medici e sfociato in una condanna a una pena pecuniaria di 90 aliquote, sospesa – avrebbe dovuto precisare a ciascuno dei sanitari – due capiservizio e altrettanti assistenti – le singole responsabilità nell’ambito del loro ruolo terapeutico. Una eccezione sollevata già dalle prime battute del dibattimento dalle difese, per voce dell’avvocato Luca Marcellini. Non intervenire in questa fase del giudizio, ha fatto capire il pretore, avrebbe rischiato di rimettere in discussione, in seguito, nel botta e risposta dei ricorsi, inchiesta e decreto. E ciò per una questione formale. Il procuratore pubblico Akbas, dal canto suo, si è detto subito «tranquillo» e, da noi interpellato, ci ha assicurato che approfondire l’incarto oggi rappresenta per
lui «una priorità». Parole le sue che hanno visibilmente rincuorato la mamma e il papà della vittima (vedi a lato). Il caso approdato davanti alla Pretura penale è, d’altro canto, forse uno dei più complicati affrontati sin qui dal Ministero pubblico sul fronte degli errori medici. Non a caso Quadri allarga lo sguardo rispetto al nucleo accusatorio: e meglio la prescrizione e la conferma, da parte dell’équipe sanitaria, della cura farmacologica e la contenzione fisica al letto. «Leggendo la perizia – ha fatto presente, ieri, il giudice –, l’impressione che se ne ricava è che l’esperto non si focalizzi tanto sulle cure, bensì sulle possibilità e i mezzi a disposizione della Clinica per gestire un paziente simile». Ovvero sofferente di una grave patologia psichiatrica cronica. Ecco che gli interrogativi aperti sin dai momenti iniziali del procedimento, restano tali. Di conseguenza: bisognava modificare il piano terapeutico o rinviare il giovane a un’altra struttura psichiatrica? Con le prassi in uso – un controllo del degente ogni mezz’ora – ci si doveva chiedere se fosse il caso di indirizzarlo a un altro istituto o a un reparto protetto? Per il pretore sono questi i temi da indagare in futuro. «La questione – ha ribadito Quadri – va vista ad ampio raggio». È indubbio che il caso del 28enne, un paziente difficile – il più difficile anche nella pluriennale esperienza di uno dei due capiservizio –, chiama la stessa istituzione cantonale a tutta una serie di riflessioni. Resistono salde le due visioni dei fatti. Se da un lato, per l’accusa i quattro sanitari hanno violato le regole dell’arte medica, per le difese – con Marcellini gli avvocati Roberto Macconi, Luigi Mattei e Goran Mazzucchelli – ci sono tutti gli elementi per giungere al proscioglimento dei loro assistiti. Le conclusioni delle arringhe erano state chiare, arrivando a insinuare il dubbio che il paziente possa essersi procurato da solo il quantitativo di psicofarmaco poi rivelatosi fatale. Un’ipotesi suffragata, a detta dei legali, dalle discrepanze fra l’esame tossicologico e le prescrizioni dei medici. Qual è la verità (giudiziaria)? Per conoscerla si dovrà tornare in aula.