Religione e scuola
Secondo Oswald Spengler ogni civiltà ha un credo religioso, ne sia o no cosciente, anzi “il fatto stesso del suo esistere, del suo divenire, del suo svilupparsi, del suo compiersi è la sua religione”. Gli uomini preistorici dovevano assecondare soprattutto bisogni biologici, gli abitatori delle civiltà poterono rispondere a desideri sempre più mondani col modo regolato della libertà comunitaria, noi delle civiltà più evolute, per non dire della civilizzazione ultima, ci permettiamo in senso dell’infinito. Questo ultimo c’era già nella forma ipostatica di un ente superiore, in primis come risposta riparatrice allo statuto della finitezza umana. È ciò che testimoniano le religioni monoteiste. Nella secolarizzazione moderna di tutte le attività umane, sempre meno ispirate dalla natura e dal verbo divino, l’illusione di infinito si identifica nella sublimazione che fa della illimitatezza in tutti i campi del sapere e del fare l’ultimo credo. Si vuol crescere all’infinito: questa l’indicazione, il comando, la fede. Ma, bacchettano i filosofi, nella storia l’autocoscienza ha passato forma e stadi, ha filato anche un nesso logico che è il divenir vero del vero. Il destino dell’uomo è l’uomo stesso. Come suona questo bel discorso nel luogo dell’educazione? La Chiesa (contro i principi dello Stato laico - vedi l’Art. 23 della Legge della scuola) si corazza nell’ora settimanale per i primi tre anni delle medie: insegnamento confessionale facoltativo. Lo Stato si accontenta del corso laico di storia delle religioni in quarta media. Tutto bene? Diciamo che il lutto della morte di Dio viene comunque elaborato fuori dall’istituzione. Diciamo che, in questo paese che non abbonda di coraggio, il tentativo laico di affrontare il tema poliedrico è da sostenere.
Roberto Kufahl, Torre (Blenio)