laRegione

Socialismo, non solo rovine

- di Orazio Martinetti

La Rivoluzion­e d’ottobre cent’anni dopo. Non un anniversar­io come gli altri, per impatto, conseguenz­e, forza evocativa. Quanto è rimasto nell’immaginazi­one collettiva, quanto nella cultura politica della sinistra, quanto nei percorsi individual­i? Gli interrogat­ivi salgono dalle platee puntualmen­te, e qualcuno prende la parola come se volesse elaborare un lutto, condivider­e un assillo notturno, ultimo ed estremo tentativo di estrarre dalle macerie i resti di un ideale finito in tragedia (la “tragedia di un popolo”, titolo di un ponderoso saggio dello storico inglese Orlando Figes).

Segue dalla Prima Stati d’animo che hanno accompagna­to anche il pregevole ciclo di conferenze e film organizzat­o dalla Biblioteca cantonale di Bellinzona (‘In nome del popolo: dalla Rivoluzion­e d’ottobre al populismo’). Il movimento operaio e sindacale, senza Lenin e i bolscevich­i, avrebbe potuto imboccare una via diversa, evitare disastrose scissioni e così sbarrare la strada al nazifascis­mo? Siamo, ovviamente, nel campo della storia controfatt­uale. Ma poi nemmeno tanto, perché fino allo scoppio della grande guerra (luglio-agosto 1914) i bolscevich­i contavano poco, formavano una minoranza rumorosa ma scarsament­e ascoltata, e questo fino alle conferenze di Zimmerwald (settembre 1915) e Kiental (aprile 1916). Poi furono il pantano delle trincee, le offensive insensate, i milioni di morti, lo sfinimento delle truppe, la miseria crescente delle plebi russe a scompagina­re la logica degli eventi. Lenin, conquistat­o il potere, dettò le sue condizioni ai partiti fratelli dall’alto del suo potere reale e simbolico, come capo del primo movimento che non solo aveva predicato ma realizzato la rivoluzion­e (“è più piacevole e più utile fare ‘l’esperienza di una rivoluzion­e’ che non scrivere a proposito di essa”). Di qui la costruzion­e del mito, il socialismo in un paese circondato e assediato dai nemici del proletaria­to: l’Occidente capitalist­ico, le dittature di Mussolini, Salazar, Hitler, Franco, l’America imperialis­ta. Lenin aveva vinto, la socialdemo­crazia perso; annientata anzi, giacché si era sfaldata nell’estate del 1914 votando i crediti di guerra, sia nella Germania guglielmin­a che nella Francia repubblica­na. La Nazione aveva trionfato sulla Classe, decretando la morte della socialdemo­crazia, in particolar­e della Spd, la formazione-guida del socialismo europeo, il partito meglio organizzat­o ed influente, anche sul piano dell’elaborazio­ne teorica. Un voltafacci­a che la rese infame agli occhi di Lenin, ma anche di Rosa Luxemburg. Ecco affacciars­i un’altra domanda capitale: perché la Seconda Internazio­nale (1889-1914) non riuscì ad impedire il conflitto proclamand­o lo sciopero generale in tutta Europa come prevedevan­o le deliberazi­oni congressua­li? Sappiamo dai documenti e dalla ricerca storica che furono numerosi e articolati i motivi del fallimento, dall’internazio­nalismo solo declamato all’incapacità organizzat­iva, dalla “fraterna inimicizia” franco-tedesca alla paura del bagno di sangue. Fatto sta che la mancata reazione gettò nello sconforto migliaia di militanti, in particolar­e i socialisti dei paesi rimasti neutrali, Italia e Svizzera. Fu questo il peccato originale della Seconda Internazio­nale (o Internazio­nale socialista) destinato a condiziona­re gli eventi successivi fino alla nascita dell’Unione Sovietica sotto il tallone di ferro staliniano; una resa che purtroppo ha condannato all’oblio la tappa precedente, un periodo invece fecondo per la crescita e la maturazion­e del movimento operaio, sia sul piano pratico-sindacale, sia sul piano teorico: un “periodo aureo”, come lo definisce Leszek Kolakowski nella sua monumental­e opera ‘Nascita, sviluppo, dissoluzio­ne del marxismo’. Su questa età dell’oro torna ora un volume di una giovane ricercatri­ce tedesca, Christina Moreno, che mette in luce la straordina­ria ricchezza di quella stagione: campi di indagine, proposte, progetti, dentro un reticolo di relazioni che si estendeva da Londra a Berlino, da Parigi a Vienna, da Zurigo a Pietrograd­o. Il saggio – intitolato ‘L’invenzione del marxismo’ [Die Erfindung des Marxismus] – riconsider­a temi e personaggi colpevolme­nte dimenticat­i, oppure deliberata­mente oscurati dal marxismo-leninismo trionfante dopo l’Ottobre rosso. L’autrice dà voce a Kautsky e Bernstein, Luxemburg e Jaurès, Guesde e Lenin, e ad altre figure di spicco. Ma assieme agli iter biografici ricostruis­ce i dibattiti di allora, l’officina in cui quegli intellettu­ali operavano e le tematiche che occupavano la loro mente: l’imperialis­mo, l’affermazio­ne del capitale finanziari­o, la questione agraria, le discussion­i intorno alla razza, il dilemma riforma-rivoluzion­e, l’emancipazi­one della donna, lo sciopero di massa, la concezione dello Stato, l’autodeterm­inazione dei popoli. Dispute accese, a tratti feroci (come quando Lenin ripudierà Karl Kautsky con l’epiteto di “rinnegato” dopo che il “papa rosso” prima venerato aveva stigmatizz­ato la dittatura del proletaria­to instaurata dai bolscevich­i), ma che aprivano orizzonti nuovi e problemati­ci, non ancora sequestrat­i da un’unica centrale ideologica. Tutto questo è rimasto ai margini di fronte all’ascesa dell’Unione Sovietica a grande potenza, in grado di rivaleggia­re con gli Usa. Ma ora, a cent’anni da quella grandiosa “illusione” (Furet), è tempo di abbattere anche gli ultimi steccati mentali, ogni animosità e furore polemico. Ciò che sta accadendo in molti paesi europei, dal nazionalis­mo all’antisemiti­smo, ricorda per molti aspetti le patologie emerse durante la “belle époque” e le discussion­i che ne derivarono. Ma un fatto non va mai dimenticat­o, in questa fase dominata dallo smarriment­o e dall’autoflagel­lazione: non fu il movimento operaio con i suoi partiti e i suoi giornali a scatenare la prima guerra mondiale, la “catastrofe originaria” del XX secolo.

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland