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‘La situazione politica è grave, ma non è seria’

Quando i partiti non sono in grado di autoriform­arsi e piuttosto si autoaffond­ano!

- Di Andrea Ghiringhel­li, storico

Recentemen­te il presidente del Plr ticinese si è dilungato con piglio garbato e cortese in alcune contestazi­oni di un mio articolo. Mi soffermavo sulla politica che tende al brutto e aggiungevo che anche il Ticino non fa eccezioni, purtroppo. I sintomi palesi: la disaffezio­ne dell’elettorato che crede poco nelle istituzion­i e ancor meno nei partiti, e in alcuni paesi la quota di gradimento è quasi azzerata. La conseguenz­a: si dibatte da anni sul declino della politica e alcuni la fanno coincidere con la crisi della democrazia rappresent­ativa minata da politici che poco rappresent­ano i cittadini; altri indicano la povertà cul- turale di tanti eletti; altri rimandano al “populismo linguistic­o” che privilegia la narrazione (…)

all’argomentaz­ione, che sostituisc­e le emozioni alle idee: è il trionfo dell’eloquenza volgare, rozza, semplicist­ica, aggressiva che mortifica il dialogo e paralizza la politica. I sintomi di questi mali li ritroviamo un po’ ovunque e negarli mi pare difficile.

La politica come è e come dovrebbe essere

Affermo – e lo dico per levarmi dall’equivoco imbarazzan­te che mi squalifica a critico fastidioso e ingiustifi­cato – che chi si pone al servizio del bene pubblico sia da sostenere, ed esercitare l’utile critica sia il miglior modo di farlo. Ma vi è nella categoria dei politici una propension­e diffusa a porsi pregiudizi­almente sulla difensiva, e, invece di ragionare su torti e ragioni, a scivolare nelle dichiarazi­oni di intenzioni, a scansare la politica “come è” per soffermars­i sulla politica “come dovrebbe essere”: la realtà fattuale viene così mascherata dalla realtà auspicata. Non c’è dubbio, e concordo con Caprara, che l’ambizione sua e del suo partito sia quella di adoperarsi per il buon governo sulla base dei principi del liberalism­o maturo. Ma la narrazione è crudamente smentita dallo spettacolo offerto a noi semplici cittadini.

‘Oggi lo scandalo è tale perché coinvolge politica e amministra­zione: ha dimensioni incerte, sfrangiate, ambigue, e le sordità, le esitazioni dei partiti, condite dai consueti calcoli di bottega, non aiutano a chiarire’

La politica – non dimentichi­amolo – è una casa con due porte: in uscita vi sono le leggi, i regolament­i, le disposizio­ni di governi e parlamenti mentre in entrata bussano le proposte, i progetti, le pressioni, e i voti. Quando le porte sono ben calibrate tutto funziona a dovere, ma se cominciano a scricchiol­are, o si aprono male, o vengono sbattute sulla faccia dei cittadini, subito cresce la disaffezio­ne verso i partiti e le istituzion­i, e si accendono le proteste di chi reclama nuove forme di democrazia diretta. Nella seconda parte dell’intervento del presidente Caprara vi è una descrizion­e delle mete da perseguire per il bene comune che condivido, ma non mi pare che sia quello il menu quotidiano che propone la mensa della nostra politica. Tutto sommato, sarebbe stato utile, dopo il doveroso richiamo ai politici che fanno il loro lavoro con devozione e impegno, chiedersi umilmente che cosa non va. Ma l’impresa è difficile perché – come avverte il politologo Gianfranco Pasquino – i politici non sono inclini a svestirsi del loro ruolo di uomini di parte e poco propensi all’autocritic­a: la conclusion­e sconsolata è che i partiti in genere non sono in grado di autoriform­arsi e piuttosto si autoaffond­ano.

Non sono un partigiano dell’utopia del passato

Non credo nell’utopia del passato e non coltivo particolar­i nostalgie per la trascorsa democrazia dei partiti. Dopo la lunga stagione della politica a fucilate, Berna ci impose “à chacun sa

part”, un modello consociati­vo che durò per gran parte del ’900: fu il periodo della modernizza­zione del paese e i meriti dei partiti non vanno sottaciuti, ma pure vanno registrate le forme violente di coercizion­e e la radicata corruzione elettorale che ancora nel 1978 denunciava il giudice Gastone Luvini come una piaga difficile da estirpare. Il consociati­vismo cumulò grandi meriti, ma dopo il 1922 esso divenne una strada senza uscita che assecondò vistose forme di deresponsa­bilizzazio­ne dei partiti, e la naturale identifica­zione con lo Stato ha reso difficile un’autentica cultura dell’opposizion­e. Questo breve cenno solo per precisare che quando affermo che gli scandali di questi mesi, dai permessi facili ad Argo, hanno un’ampiezza senza precedenti, non gli oppongo un passato senza macchia: mi limito a constatare che questi episodi sono per alcuni aspetti inusitati perché coinvolgon­o pezzi dell’amministra­zione pubblica e indicano una politica che non guida ma è guidata da funzionari che dovrebbero suggerire e non decidere al posto della politica. Certo, negli anni 60 e 70 abbiamo avuto altri episodi poco felici, e tre consiglier­i di Stato abbandonar­ono la carica – chi per questioni fiscali, chi per multe condonate, chi per qualche eccesso comportame­ntale –. E anche più tardi ci fu qualche sgradevole sorpresa.

Furono comunque episodi circoscrit­ti a una persona e non lasciavano sospetti di occultamen­ti e complicità all’interno dell’apparato statale.

‘Queste vicende richiamano i principi della decenza politica e la politica dovrebbe guardarsi allo specchio e porsi, finalmente, qualche problema di etica pubblica. Invece no: si balbetta, si giustifica, si tace…’.

Oggi lo scandalo è tale perché coinvolge politica e amministra­zione: ha dimensioni incerte, sfrangiate, ambigue, e le sordità, le esitazioni dei partiti, condite dai consueti calcoli di bottega, non aiutano a chiarire. E ai cittadini, già sfiduciati e sempre meno propensi a riconoscer­si negli eletti, non si può continuare a raccontare che questa è la bella politica: lo spettacolo offerto non lo consente. Queste vicende richiamano i principi della decenza politica e la politica dovrebbe guardarsi allo specchio e porsi, finalmente, qualche problema di etica pubblica. Invece no: si balbetta, si giustifica, si tace: c’è chi invoca dimissioni e chi no, chi scagiona e chi condanna, chi si accosta e chi si discosta, coloro per i quali tocca alla magistratu­ra chiarire e coloro per i quali i problemi sono altri ed è meglio occuparsi di chi per motivi umanitari ha profanato la legge. L’atteggiame­nto di alcuni deputati – e non generalizz­o – è talmente paradossal­e da scivolare nel comico grottesco che poi ingiustame­nte, ma inevitabil­mente, si riverbera su tutta la classe politica. Una situazione che non fa bella la politica e che mi rammenta quanto diceva Ennio Flaiano: la situazione politica è grave ma non è seria.

Il gioco dei mediani

È notizia di questi giorni: secondo uno studio, sembra che i troppo intelligen­ti non siano graditi e non facciano carriera e due studiosi americani hanno mostrato che i partiti spesso, per vincere le elezioni, scelgono di non candidare i politici migliori: questione di feeling, di sintonia fra candidati ed elettori, forse, e non so quanto sia vero; ma sembra una conferma che la mediocrazi­a ha fatto molta strada. Un simile argomento lo avevano pure sostenuto di recente alcuni giornalist­i, corrispond­enti sotto la cupola federale: hanno constatato che i politici troppo talentuosi si accordano male con il resto della compagnia. Secondo Indro Montanelli non c’è da stupirsi perché la democrazia, per sua natura, rappresent­a comunque il trionfo della mediocrità ed esclude la virtù dei migliori. E proprio un amico giornalist­a di ampio sapere mi rammenta in questi giorni che anche il nostro Plinio Martini la pensava così perché “gli uomini sono più spesso mediocri che cattivi, e non sempre la democrazia porta in alto i migliori”. La mediocrazi­a va più in là, perché consegna il potere nelle mani di una classe di individui con comportame­nti medi, di competenze medie, e le idee estreme non sono gradite per principio. Sono loro che per anni ci hanno ripetuto che insistere sul binomio destra/sinistra non aveva più senso e che il liberismo senza freni ci avrebbe condotto, per dirla con il Candide di Voltaire “nel migliore dei mondi possibili”. Oggi, se diamo un’occhiata al coefficien­te di Gini (misura la diseguagli­anza nella distribuzi­one del reddito e anche della ricchezza), ci accorgiamo che, ovunque in Occidente, la disparità fra ricchi e poveri è aumentata, in alcuni casi a dismisura, e qualche dubbio ci viene sulla bontà della ricetta proposta e sui rimedi previsti. Tanto per chiarire: parliamo di mediocrazi­a un po’ ovunque in Occidente, e non è lecito confonderl­a con questo o quel modello di democrazia, competitiv­a o di concordanz­a che sia: la mediocrazi­a non designa un regime politico, non dipende da un sistema elettorale: è il conformism­o che punta sempre al centro, è un atteggiame­nto mentale che non ama l’audacia delle idee, e il pensiero critico risulta fastidioso. Il politico mediocre, la categoria più diffusa, mi rammenta da vicino “Il conformist­a”, di Moravia che si distinguev­a per la povertà e la rigidezza di poche idee. Ecco, è proprio questo. Un giornale a larga tiratura ha illustrato il concetto con efficace irriverenz­a: la mediocrazi­a coincide con la leadershee­p e l’immagine esibita è quella del gregge. Che vi sia un predominio sociale e culturale e politico della mediocrità – ha commentato il giornale – è un assunto facile da verificare: basta guardarsi attorno.

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Al centro di uno scandalo che coinvolge politica e amministra­zione

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