Uber, quanti dolori!
L’unicorno più caro al mondo è azzoppato e l’elenco dei suoi dolori è lunghissimo. Stiamo parlando di Uber, il campione delle creature mitiche della Silicon Valley, cioè delle start up tecnologiche che, non quotate in Borsa, sulla carta sono valutate oltr
Il servizio di autisti gestito con una app dello smartphone, fino a una settimana fa era valutato 68 miliardi di dollari, una cifra astronomica perché è dieci volte il fatturato 2016, pari a soli 6,5 miliardi, mentre il bilancio continua ad essere in rosso nove anni dopo la nascita della società e sei anni dopo il lancio del servizio: nel 2016 infatti le perdite sono state di 2,8 miliardi e nel terzo trimestre di quest’anno hanno continuato ad aumentare. Ma da quei 68 miliardi – stimati sulla base dei finanziamenti privati finora ricevuti – la valutazione è crollata del 30% a ‘soli’ 48 miliardi, secondo l’offerta di acquisto di una quota di azioni (circa il 14%) di Uber avanzata la settimana scorsa da SoftBank, la società di investimenti del giapponese Masayoshi Son, specializzata in telecom e high-tech. Ancorché inferiore di circa un terzo rispetto al record precedente, la valutazione da 48 miliardi non solo può essere allettante per gli attuali investitori – fondi di venture capital ma anche fondi comuni “normali” come quelli di Fidelity –, perché comunque garantisce un ricco guadagno a chi ha scommesso al tempo giusto su Uber (la start up era stata fondata nel 2009 con un finanziamento iniziale di 200mila dollari) e offre una via d’uscita prima del debutto in Borsa con l’Ipo (Initial public offering), prevista non prima del 2019. Ma soprattutto la proposta di SoftBank può rappresentare una svolta nella storia travagliata di Uber, afflitta da una serie di scandali e di beghe legali. Per questo è caldeggiata dal nuovo ceo (amministratore delegato) Dara Khosrowshahi, subentrato al fondatore Travis Kalanick la scorsa estate.
Spionaggio industriale
L’ultima notizia che ha scosso la reputazione di Uber è stato, sempre la settimana scorsa, il colpo di scena in tribunale a San Francisco, alle udienze preliminari del processo civile avviato da una causa di Alphabet, la holding di Google e Waymo. Quest’ultima è una società che sviluppa la tecnologia per le auto “autonome”, cioè che viaggiano senza autista: lo scorso febbraio ha accusato un suo ex ingegnere di aver cospirato con Uber per rubarle segreti industriali. All’udienza della settimana scorsa è emersa una lettera di un ex dipendente di Uber che racconta l’esistenza dentro Uber di una squadra dedicata a “spiare” i concorrenti – come Lyft – cercando di carpirne online documenti riservati e usando una serie di accorgimenti – come messaggi criptati e computer separati dal sistema ufficiale di Uber – per non lasciar tracce di questa attività e fuorviare eventuali inchieste giudiziarie. Il giudice ha aggiornato la discussione del caso al 5 febbraio per dar modo agli avvocati di Waymo di analizzare la lettera e usarla per la causa.
Buchi nella sicurezza
Due settimane fa, invece, si è saputo che Uber ha nascosto per un anno di essere stata colpita dai pirati informatici, che hanno rubato dati di 57 milioni di clienti e di autisti.
Caotica corporate governance
Il consiglio di amministrazione di Uber è da tempo diviso tra i fedeli del fondatore ed ex ceo Kalanick e i suoi ‘nemici’, che lo hanno costretto alle dimissioni lo scorso giugno e hanno scelto come nuovo ceo Khosrowshahi. Le due fazioni si sono combattute anche a colpi di cause legali.
Scandalo sessuale
Alcuni top manager di Uber sono stati accusati da donne loro dipendenti di
aver commesso molestie sessuali o di aver ignorato le loro denunce. Più in generale, diversi ex dipendenti hanno descritto un clima aziendale ‘tossico’.
Mancate autorizzazioni
Lo scorso settembre la città di Londra ha rifiutato la richiesta di Uber per una nuova licenza, dicendo che la app non è ‘adeguata’ a operare nel capoluogo britannico. In molti altri Paesi Uber ha incontrato ostacoli alla sua espansione. In Italia, per esempio, lo scorso aprile una sentenza aveva bloccato tutta l’operatività della app: a maggio il blocco è stato revocato, ma solo per Uber Black, il servizio di auto ‘di lusso’, mentre resta vietato Uber Pop, quello meno caro che fa concorrenza ai tassisti. Problemi Uber li ha avuti anche in Russia, Finlandia, Danimarca, Taiwan, Ungheria, Bulgaria, Francia, Spagna, Australia, India e in Cina. In quest’ultimo Paese ha rinunciato a operare, vendendo la sua attività al concorrente Didi Chuxing.
Verso l’Ipo
SoftBank ha investito anche in Didi e in altri concorrenti di Uber fuori dagli Usa: Ola in India e Grab nell’Asia sudorientale. L’idea è cavalcare il consolidamento del settore a livello globale e poi, quando resteranno meno operatori, guadagnare alzando i prezzi. Il che è stata anche la strategia praticata finora da Uber: applicare tariffe basse per mettere ko i rivali e poter poi sfruttare la posizione dominante. Ma per ora in questo modo sono aumentate le perdite, mentre è diminuita la quota di mercato di Uber sulla piazza principale, quella americana, dall’84% di inizio anno al 77% dello scorso maggio, sotto l’incalzare della concorrenza di Lift e delle altre simili app. Gli azionisti di Uber hanno tempo una ventina di giorni per accettare l’offerta di SoftBank: se non si arriva alla quota del 14% di azioni disposte a passare di mano, SoftBank può alzare il prezzo. O abbandonare l’operazione e lasciare l’unicorno al suo destino, sempre meno magico.