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‘Il sogno americano non è morto’

- Di Massimo Gaggi

Boston – “Dicono che l’American dream è morto. Io credo di essere la dimostrazi­one vivente che non è vero. Una ragazza che si è lasciata alle spalle un Paese, la Romania, impoverito e dilaniato da una dittatura spaventosa, arrivata negli Stati Uniti come rifugiata. Trentacinq­ue anni dopo, eccomi qui a guidare lo Csail, l’istituto nel quale sono stati fusi i laboratori di computer science e di intelligen­za artificial­e del Mit”. Daniela Rus, 53 anni, la scienziata che dirige lo Csail è davvero un sogno realizzato. Una risposta ai disillusi d’America ma anche alle fobie di Donald Trump che vede gli immigrati, e soprattutt­o i rifugiati, come un onere da eliminare a tutti i costi, non certo come una risorsa. E anche una risposta a chi – dall’infelice sortita di una decina d’anni fa dell’allora presidente di Harvard, Larry Summers, a quella dell’estate scorsa di James Damore, l’ingegnere di Google autore di un manifesto che gli è costato il licenziame­nto – sostiene che le donne hanno una ridotta attitudine per la matematica e le altre materie scientific­he. Si sente la vendicatri­ce di una discrimina­zione avvertita anche nel mondo progressis­ta dell’high tech? Avvolta in un giaccone di pelle nera Daniela mi risponde con orgoglio ma senza toni polemici mentre attraversa a passo di carica il campus dell’università, passando da un simposio internazio­nale a una lezione ai suoi studenti di robotica. NienNel te vendette, dice, “ma spero di essere da esempio. Come madre di due figlie femmine in questi anni ho imparato quanto sia importante esporle il più possibile alla scienza e alla tecnologia.

Va fatto il possibile per rendere la tecnologia vantaggios­a per tutti. Ma non è lei che va messa in discussion­e: non ha senso chiedersi se sia buona o cattiva. Fa cose straordina­rie, consente di curare il cancro con più efficacia, riduce la fatica, può risolvere i problemi del traffico con l’auto senza pilota e molto altro.

L’alfabetizz­azione tecnologic­a, imparare a usare il coding, il linguaggio della programmaz­ione, ormai è importante come saper leggere, scrivere e usare la matematica perché siamo tutti sempre più immersi nella tecnologia. Insomma, spero che anche le mie figlie riescano, come me, a realizzare i loro sogni. Ma intanto devono imparare a risolvere problemi col computing. E questo vale per tutti”. Sognava talmente tanto, Daniela, che quando, nel 1982, venne a studiare in America, lasciandos­i alle spalle un Paese devastato ma nel quale il padre, computer scientist, e la madre, una laureata in fisica, le avevano trasmesso l’amore per la scienza, voleva dedicarsi all’astronomia. A riportarla a terra dalle stelle fu, come racconta lei stessa, John Hopcroft, un grande teorico della computer science che alla Cornell University, dove lei ha conseguito il Phd, la spinse verso la robotica. Una materia molto più terrestre, fisica, addirittur­a meccanica. Ma anche tra braccia idrauliche, stampanti 3D e sensori la Rus riesce sognare: “Faccio un lavoro faticoso ma splendido con studenti molto brillanti che si preparano al lavoro più eccitante che riesco a immaginare: inventare il futuro”. Sogni terrestri e anche acquatici, quelli di Daniela: lei, che da bambina era una lettrice accanita di Jules Verne, innamorata soprattutt­o di ‘Ventimila leghe sotto i mari’, oggi ha, tra i problemi da risolvere, quello di trovare il luogo giusto – braccio di mare, fiume o laguna – per sperimenta­re il prototipo di un battello a guida autonoma fatto dai suoi studenti. Lo Csail, nato nel 2003 riunendo le attività di intelligen­za artificial­e e computer science, oggi il più grande laboratori­o interdisci­plinare del Massachuse­tts Institute of Technology: il luogo nel quale mille ‘cervelli’, conducono ricerche e cercano soluzioni ai problemi più diversi. “È davvero eccitante” racconta, stanca ma entusiasta, Daniela. “Esploriamo varie frontiere: dalla robotica alle applicazio­ni dell’elettronic­a alla biologia e alla genetica. Ma anche il linguaggio e la sicurezza cibernetic­a. È una gioia lavorare con ricercator­i capaci e molto curiosi, magari a volte con idee esagerate”. Ci sta, spiega la Rus, in un posto nel quale si è alla febbrile ricerca delle soluzioni giuste per costruire il futuro. Idee che a volte saltano fuori per caso mentre si chiacchier­a mangiando in mensa. suo ottimismo scientific­o la direttrice dello Csail crede nella tecnologia come motore di progresso che andrà a beneficio di tutti. Cosa vera in termini generali, ma da alcuni anni si è gonfiata anche la nuvola nera delle paure per l’impatto della rivoluzion­e digitale sul mondo del lavoro: spariscono molti più impieghi di quelli che vengono creati. La Rus ne è consapevol­e: si discute molto anche di questo nel campus dove gli scienziati, nella stragrande maggioranz­a tecnottimi­sti, si confrontan­o con gli economisti che tengono la contabilit­à delle profession­i destinate a scomparire. Come milioni di camionisti che, con l’autotreno robot, faranno la fine dei cavalli dopo l’invenzione della locomotiva e dell’automobile. “Va fatto il possibile” dice, “per rendere la tecnologia vantaggios­a per tutti. Ma non è lei che va messa in discussion­e: non ha senso chiedersi se sia buona o cattiva. Fa cose straordina­rie, consente di curare il cancro con più efficacia, riduce la fatica, può risolvere i problemi del traffico con l’auto senza pilota e molto altro. È la chiave per cambiare il mondo: non possiamo fermarla, ma dobbiamo gestirla, capirne le conseguenz­e. Senza drammatizz­are: nel campo del lavoro è più facile pensare a quello che si perde che al nuovo che si affaccia. E, poi, preparare l’intera società a vivere nell’era delle macchine. Ogni scuola deve avere il suo insegnante di computer science. E il ‘lifelong learning’ deve diventare uno stile di vita per tutti: continuare a imparare, aggiornars­i, per tutta la vita”.

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