Quei bilaterali mai digeriti
Gli accordi tra Berna e Bruxelles sono la conseguenza del no allo Spazio economico europeo
L’avvocato Michele Rossi, già negoziatore delle prime intese con l’Ue, ribadisce che oggi sarebbe più difficile ottenere lo stesso statuto per la Svizzera
Sono passati 25 anni da quel no di popolo e cantoni allo Spazio economico europeo e il tema dei rapporti tra Svizzera e Unione europea è diventato centrale sull’agenda politica di partiti e istituzioni elvetiche tanto da diventare un asset ideologico per alcuni partiti che ne hanno fatto un totem identitario. Nessuno più parla apertamente di un’adesione della Confederazione all’Unione europea e addirittura quella domanda di associazione, fatta dal Consiglio federale nel maggio del 1992 sull’onda dell’entusiamo europeista dell’epoca (ricordiamo che si era in piena dissoluzione dell’Urss e la Germania era tornata a essere unita, ndr), è stata formalmente ritirata lo scorso anno. La questione, quindi, non si pone più a breve termine ma rimangono ancora nodi da sciogliere riguardo ai futuri rapporti con Bruxelles. L’accordo quadro istituzionale con l’Unione europea non trova il sostegno politico necessario e gli accordi bilaterali – il piano B della mancata adesione allo Spazio economico europeo – sono stati utili per mantenere buoni rapporti di vicinato ma stanno dimostrando i loro limiti per quanto riguarda il processo evolutivo del diritto. «Caduto l’approccio multilaterale dello See, negli anni seguenti rimaneva solo la strada bilaterale per cercare di mantenere un rapporto con il principale mercato di riferimento della Svizzera», ci spiega l’avvocato
Michele Rossi, già membro della delegazione svizzera che negoziò il primo pacchetto degli accordi bilaterali. «La proposta dello See nel 1992 era stata fatta dall’allora Comunità europea ai Paesi europei non membri proprio per realizzare il mercato unico e all’epoca aveva una valenza completamente diversa da oggi visto che alcuni di quegli Stati oggi fanno parte dell’Unione europea. Solo Islanda, Norvegia e Liechtenstein fanno parte dello See», spiega Rossi.
La Svizzera scelse la via bilaterale che però è sempre messa politicamente in discussione...
Il termine ‘röstigraben’, per identificare il fossato culturale tra la Svizzera tedesca (il Ticino votò come i cantoni germanofoni, ndr), nacque proprio in quel frangente. Gli accordi bilaterali sono la conseguenza di quel no o se vogliamo il piano B, ma sono da sempre contestatati da una parte politica e non sono mai stati completamente digeriti, soprattutto in Ticino per quanto riguarda la libera circolazione delle persone. Anche a livello federale c’è chi ha annunciato il prossimo lancio di un’iniziativa proprio per abolire la libera circolazione delle persone, dimenticando di dire che con la clausola ghigliottina in realtà cadrebbero automaticamente anche gli altri accordi con l’Ue.
Con le intese bilaterali, la Svizzera ha ottenuto due obiettivi: partecipare al mercato europeo e mantenere l’indipendenza da Bruxelles. Perché cambiare?
Questo è vero ma oggi – nel 2017 – nemmeno la Svizzera potrebbe più ottenere quanto raggiunto nel 1999. Quell’accordo non è più replicabile. Allora erano 15 i paesi della Comunità europea, ora sono 28 (27 quando la Gran Bretagna uscirà, ndr). Sarebbe molto più difficile ottenere il consenso di Stati che arrivano da un’altra storia politica e culturale. Penso ai paesi dell’Est. Inoltre dal 2010 l’Ue sta chiedendo alla Svizzera di trasformare gli accordi bilaterali, giudicati statici, in accordi dinamici per mezzo di un accordo quadro istituzionale. Concretamente ci viene chiesto di recepire nell’ordinamento giuridico svizzero anche il nuovo diritto dell’Ue, obbligo non previsto dai bilaterali in vigore. Inoltre si chiede anche che la Svizzera riconosca la giurisdizione di un tribunale internazionale per appianare le controversie che dovessero emergere tra le parti. Quindi se oggi dovessimo fare cadere i bilaterali, non è detto che Bruxelles accetti di negoziarne degli altri e nel caso lo facesse, sappiamo già che non sarebbe disposta, contrariamente al 1999, a concludere degli accordi che non prevedano il recepimento automatico del diritto futuro e la competenza della Corte di giustizia dell’Ue.