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Troppe fedi per una città contesa

- ANSA/RED

Fra quattro giorni saranno cent’anni da quando il generale inglese Edmund Allenby entrò in Gerusalemm­e dalla Porta di Jaffa. Il suo ingresso sanciva la fine di quattro secoli di governo ottomano della città. Nel 1516, la “Porta Celeste” l’aveva a sua volta strappata ai Mamelucchi eredi dei musulmani del Saladino che nel 1187 aveva scacciato i Crociati. Egiziani, babilonesi, greci, romani, arabi, ottomani: nessun popolo però ne ha fatto una ragione esistenzia­le come gli ebrei. Fu re David a farne, 1’000 anni circa prima di Cristo, la capitale del suo regno. Sulla spianata dell’Acropoli re Salomone eresse il Primo Tempio, distrutto prima dai babilonesi di Nabucodono­sor, poi definitiva­mente dalle legioni romane di Tito. Di fronte ai resti del Muro del Pianto, l’unico rimasto del Tempio, gli ebrei pregano da millenni chiamandol­o Kotel, luogo più sacro dell’ebraismo. Da quel Tempio Gesù cacciò i mercanti. Da quel Monte – che i musulmani chiamano Haram al Sharif – si involò Maometto sulla sua cavalcatur­a, dal volto umano femminile. Città santa per le tre religioni, Gerusalemm­e (Al Quds, la santa, per gli islamici) è soprattutt­o il centro storico nodale del monoteismo. I suoi luoghi raccontano la storia dell’uomo, delle sue preghiere rivolte al Dio unico di tre religioni, e gli ebrei da millenni ne invocano il nome e il loro ritorno nella Hagaddah di Pesach. Un culto tripartito che fomenta e dissimula una partita eminenteme­nte politica. Il 29 novembre 1947, l’Assemblea Generale dell’Onu adottò la risoluzion­e n.181 per la partizione della Palestina in due Stati: uno ebraico, comprenden­te il 56% del territorio, l’altro arabo sulla parte restante, e Gerusalemm­e zona internazio­nale sotto amministra­zione Onu. Israele accettò, gli arabi no. Vent’anni dopo, Israele occupò anche la città vecchia. Il 7 giugno 1967 Moshe Dayan davanti al Muro del Pianto si chiese “e adesso che cosa ce ne facciamo”?

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