Claudio Baglioni, Sanremo è adesso
Prima che il Festival-tritacarne provi a farne polpette, preferiamo ricordarlo così
Prima che il chiacchiericcio si divori il direttore artistico, rileggiamo le gesta di un artista che ha scritto la storia. E portato a Sanremo Ron con un pezzo di Dalla, Mario Biondi e la Vanoni.
A lungo unico depositario del mal d’amore (e di quello in riva al mare), colto musicista e compositore ancor prima che personaggio. Da ‘Notte di Natale’ fino a ‘Capitani coraggiosi’, ecco la storia di un caposcuola nei panni del direttore artistico di Sanremo, ruolo scomodo, in Italia, tanto quanto la panchina della nazionale di calcio. Ieri sera, le sue scelte per la gara di febbraio.
“E per tutti ‘Agonia’”. In ‘51 Montesacro’, intermezzo autobiografico che lega i brani dell’album ‘Strada facendo’ (1981), Claudio Baglioni ricorda quel soprannome che lo accompagnò per i primi anni di carriera, nato un po’ per gli occhiali spessi un dito (“Il più bravo a scuola, quattr’occhi e mezzo naso”), un po’ per lo struggimento d’amore del quale è stato per molto tempo depositario e unico autorizzato.
1. Il pessimismo baglioniano
Fino alla fine del secolo scorso, i teenager di ieri (50enni di oggi) erano soliti inneggiare a tutta una serie di disastri sentimentali, da ‘Fiori rosa fiori di pesco’ (1970, Battisti, il lasciato va a casa della lasciante e ci trova l’altro) a ‘Questo piccolo grande amore’ (1972), dove l’amore – grande o piccolo che fosse – è già finito (“Ed io, io non lo so quant’è che ho pianto”). Baglioni c’era andato giù pesante già agli esordi in ‘Notte di Natale’ (1970): nevica, in cielo non c’è traccia di stelle comete, lei non verrà e il male di vivere esplode nel verso “Dio, tu stai nascendo e muoio io”. Ascoltata la notte della Vigilia, peggio ancora se la fidanzata storica vi ha lasciati il pomeriggio di Pasqua, il rischio di ateismo è alto. ‘Amore bello’ (1973) è teatro dell’ultimo ballo (“Fra poco andrai, un lento, l’ultimo oramai”); in ‘E tu’ (1974), sebbene lei stia “scoppiando dentro il cuore” di lui, lui si chiede “che cosa mai farei se adesso non ci fossi tu” (qualcuno che esplode dentro il cuore tuo dovrebbe rappresentare la migliore delle certezze. E invece il cantautore si fa delle paranoie). L’incipit “Passerotto non andare via” di ‘Sabato pomeriggio’, stesso anno, dice già tutto. Come già tutto dice il titolo ‘Solo’ (1977), brano dal quale emerge il preoccuparsi di lei, l’abbandonante, quando quello grave è lui, l’abbandonato (“Non darti pena sai per me, mangia un po' di più che sei tutt’ossa”, che equivale a “Ho parlato al suo ragazzo e l’ho convinto a ritornare da lei”, l’amore al tempo dei ‘Servi della gleba’). In ‘E tu come stai?' (1978) va in scena il pensiero fisso dell'altro con lei (“Chi ti accarezza stanco?”, dove “stanco” a noi è sempre parso più lascivo di “arzillo”); in ‘Amori in corso’ (1985, da ‘La vita è adesso’), l’amore non è mai cominciato (“Ancor prima di trovarti, forse ti ho già perso”). Tardivamente premesso che quanto sopra è di qualità artistica eccelsa e che in questo pregevole mal de vivre ci siamo cullati con un certo piacere autolesionistico, il Baglioni pessimista andrebbe ascoltato quando nella vita si hanno le prime sicurezze, una sufficiente dose d’autostima e, soprattutto, una volta superati l’idealizzazione della figura femminile, le pretese salvifiche e i presunti poteri divinatori. Soltanto allora si potrà soffrire in modo costruttivo ascoltando ‘Mille giorni di te e di me’ (1990) e i cocci rotti di una storia che “va a puttane, sapessi andarci io”, per poi passare a un capolavoro del mal d’amore – nessuna ironia, di capolavoro si tratta – intitolato ‘Fammi andar via’ da ‘Io sono qui’ (1995), grido disperato di chi chiede alla donna della sua vita – lei, di lui, evidentemente pensava tutt’altro – di aiutarlo a dimenticarla: “E se andrai lontano, fa che non sia troppo fuori mano, o trova un posto irraggiungibile”.
2. I ganci in mezzo al cielo
Amori in corsa o sul binario morto, Claudio Baglioni ha avuto quel dono di pochi di catturare l’epoca, la generazione, l’immediato, l'istante. Come quello che chiude ‘Avrai’, scritta per il fiKatche glio Giovanni nato nel 1982 (oggi virtuoso della chitarra acustica), al quale il padre augura “una radio per sentire che la guerra è finita”. Gli anni ottanta di Baglioni erano iniziati con la consacrazione data da ‘Strada facendo’, canzone e album del 1981 prodotti da Geoff Westley (già col Battisti di ‘Una giornata uggiosa’, oggi con lui nella commissione artistica di Sanremo). Quel “gancio in mezzo al cielo”, che i più intraprendenti hanno inseguito e i pigri atteso, ha affascinato un po’ tutti. Anche l’autore de ‘La forza mia’, brano con il quale il talentuoso (da talent) Marco Carta vinse un Festival urlando “Tu sarai la forza mia, il mio gancio in mezzo al cielo”. Che in musica è un po’ come prendere in prestito Ungaretti in poesia (“Tu sarai una tipa buia, ma a volte t’illumini d’immenso”). Arrangiato da Celso Valli, con la London Symphony Orchestra registrata ad Abbey Road, Hans Zimmer ai synth (oggi capo orchestra alla DreamWorks), il session man Phil Palmer e Stuart Elliott dagli Alan Parson Project, ‘La vita è adesso’ (1985) contiene un altro (omonimo) inno. Il “gancio in mezzo al cielo” diventa l’invito a “non lasciare andare un giorno per ritrovar te stesso” (il pigro non raccoglierà, l’intraprendente sì). Nel testo, uno dei più intensi momenti d’intimità: “e tu che mi ricambi gli occhi in questo istante immenso, sopra il rumore della gente, dimmi se questo ha un senso” (oggi un rapper scriverebbe direttamente “stiamo trombando”). In coda all’album, ‘Notte di note, note di notte’, da cui un congedo lungo 5 anni; in mezzo, ‘E adesso la pubblicità’, sul tema del rimbecillimento da tv molto prima dell’avvento dei format di Maria De Filippi. Su tutte, ‘Uomini persi’, amara e a suo modo anticipatrice riflessione che tutti – anche “quei disperati che seminano bombe tra poveri corpi, come fossero vuoti a perdere” – sono stati bambini, e, almeno per poco, innocenti.
3. Ben ‘Oltre’ l’amore
Al Comunale di Torino, nel settembre del 1988, il popolo gridava Vasco con la stessa rabbia con la quale anni prima si gridò “Barabba”. Guardando alla scaletta, al tempo della data italiana di “Human Rights Now” – concertone in favore di Amnesty International – il rocker di Zocco rispetto a Baglioni non aveva né una ‘Uomini persi’ (vedi punto 2), né una ‘Ninna nanna nanna ninna’, la guerra vista da Trilussa e messa in musica (la gente che “se scanna per un matto che comanna” e per “un Dio che nun se vede”). Si trattava di suonare per i diritti dell'uomo insieme a Bruce Springsteen, Peter Gabriel, Sting, Tracy Chapman, Youssou N’Dour, e a 'Strada facendo' qualcuno avrebbe preferito 'Bollicine'. Baglioni fu oltraggiato in modi che YouTube non può raccontare, grazie (si presume) a un accurato lavoro di rimozione. Ma noi, tra quegli 80mila – piedi nella cartapesta per via del lavoro congiunto di volantini pacifisti, docce refrigeranti e primi venti autunnali – vedemmo volare le arance sul palco. A poco servì Peter Gabriel, nato in terra di hooligan, a placare gli ultrà. Quanto sia pesato quel pomeriggio torinese sull’anno trascorso tra l'annuncio del nuovo album e la sua pubblicazione, non è dato sapere. Se mai fosse stato puro perfezionismo, allora per svoltare artisticamente non basta mettere fuori la freccia, bisogna prima avere la patente. E Baglioni si dimostrò patentato. Non riuscendo a comprendere quella pantagruelica raccolta di pensieri, parole, opere senza alcuna omissione chiamata ‘Oltre’, parte della critica pensò fosse il caso di stroncare a prescindere, complice un singolo non trainante (‘Dagli il via’). Oggi che il doppio album è ritenuto il punto più alto della produzione di Baglioni – registrato negli studi di Peter Gabriel con un viavai di turnisti come Steve Ferrone, Tony Levin, Paco De Lucia, Manu e molti altri – si può rileggere un sottotitolo del critico Marco Mangiarotti che accoglie il disco così: “il discusso ritorno di un popolare cantautore che crede di essere un poeta” (l’articolo è pure peggio). 'Oltre' è opera eccelsa, fosse solo per la presenza di Pino Daniele in ‘Io dal mare’ e di Mia Martini in ‘Stelle di stelle’, atipico duetto jazz in cui le voci viaggiano per tutto il tempo separate, fino a incontrarsi sulla parola “voce”, alla fine di tutto. Cinque anni più tardi, Baglioni pubblica ‘Io sono qui’, dopo il quale tutto è un secondo indietro nell'orologio biologico del cantastorie. Detto di ‘Fammi andar via’, in mezzo a singoli riusciti come ‘Bolero’ vive una colta citazione di Libero Bovio chiamata ‘Reginella’. ‘Le vie dei colori’ è il fulcro di un live chiamato ‘Attori e spettatori’ che riempie l’Olimpico per due sere di fila, e anche San Siro.
4. ‘Tu si che eri un re, mica io’
Capace per primo di smontare la sacralità dell’artista, per cantare debitamente riarrangiate ‘Heidi’, ‘Sandokan’, ‘Pippi Calzelunghe’ e le sigle di ‘Canzonissima’, nel 1997 Baglioni è il juke-box umano di un contenitore tv sul modernariato chiamato “Anima mia”. Da lì, un cd di tutto il meglio (‘Anime in gioco’). Il 1999 è l’anno di ‘Viaggiatore sulla coda del tempo’, dal quale la compagnia telefonica Omnitel si impossessa di ‘Cuore d’aliante’, rendendola per sempre spot. L’album è chiuso da 'A Clà', il Baglioni che parla a sé stesso ricordando il momento nel quale i due Claudio – l’artista e l’uomo – si sono separati per sempre (“Tu si che eri un re, mica io”). La canzone chiude un ciclo nel quale ‘Sono io (l’uomo della storia accanto)’ suona come un dignitoso effetto Doppler. Il fabbricatore di inni generazionali si è fermato a ‘Tutti qui’, da uno dei molti live da perdere il conto. L’ultimo Baglioni inedito è in una serie di brani sdoganati online per quella teoria tanto cara a Vasco Rossi che l’album è una cosa superata (che a noi suona come “non ho più la vena creativa di una volta”). Singoli che vengono comunque raccolti nel 2013 nell’album ‘Con voi’. Abituati al silenzio nel quale di 5 anni in 5 anni avevamo atteso il suo ritorno con un disco capace di far dimenticare il precedente, nel 2016 l’ennesimo live ha fermato nel tempo l’esperienza ‘Capitani coraggiosi’ insieme a Gianni Morandi, con il Baglioni – un tempo misurato – a chiudere ogni canzone con l’acuto, in una gara a chi ce l’ha più lungo (l’acuto) disputata con se stesso (il Morandi, dell’estensione, se ne frega). L’ostentazione di fiato rievoca il miglior (peggior) Claudio Villa, che su ‘Granada’ andava a caccia dei bicchieri lasciati intatti da Caruso. Più che in gara per il gorgheggio, si rivorrebbe il Baglioni chino su un altro ‘Oltre’, come il Concato di ‘Tutto qua’ che nel 2011 sforna l’album perfetto quando meno te l’aspetti.
5. Perché Baglioni è Baglioni
Qualcuno sceglie l'addio sul più bello come Mina; altri si ritirano in collina come il Fossati, o sull’Appennino come il Maestrone, per essere rimpianti ogni giorno alla stessa ora. Baglioni ha scelto il Festival. “Come Morandi”, si è detto. Non proprio. La spontaneità dell’ugola di Monghidoro (così il Gianni per gli almanacchi), quell’essere alla mano come sui social così in terra, cozza con la rigorosità del romano, musicista, autore, strumentista, non semplice interprete. E oggi che al grande pubblico, del musicista, interessano più le beghe familiari che non com’è nata una canzone, la scelta di imbarcarsi in un’impresa scomoda come quella del ct della nazionale crea perplessità. Nell’Italia che celebra ‘Gelato al cioccolato’ e non ha mai ascoltato ‘Tamburi lontani’, prima che il Festival-tritacarne provi a ridurre in poltiglia la storia di un musicista come pochi (lo si ascolti nel live di Napoli, reggere da solo al pianoforte un’intera carriera), e mentre si consolidano le incertezze di Mario Luzzatto Fegiz che sono pure le nostre (“non ho niente contro Baglioni a Sanremo, ho solo paura per lui”), ci sembrava giusto ricordare su queste pagine la grandezza di un grande. A prescindere.
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