Big Data: super potere e rischio abusi
Non si devono dormire sonni tranquilli a Seattle, Cupertino, Menlo Park e Mountain View. Il potere dei quattro big dell’hi-tech, Apple, Amazon, Facebook e Google, è evidente a chiunque. Ma mai come in queste settimane sembra stia montando da parte dei leg
Multe pesanti in Europa, ingiunzioni da parte del Fisco per arretrati delle tasse, e generale insoddisfazione per il peso raggiunto nelle nostre vite, sono gli esempi più evidenti.
Spezzettati per evitare posizioni
dominanti sul mercato
Scott Galloway, docente di marketing alla New York University, dice senza mezzi termini che i quattro big andrebbero spezzettati, modello At&t nel 1982. Una mossa decisa dall’Antitrust americana che resterà nella storia statunitense e di quella del capitalismo. Eh sì, perché così come nel 1982 si trattava di preservare il principio alla base del libero mercato, e cioè la possibilità di evitare posizioni dominanti che deprimessero la concorrenza, alla stessa maniera oggi si dovrebbe capire come meglio affrontare, nel diverso scenario “smaterializzato” del web globale, il potere raggiunto dai giganti del web. Per farlo, come ricordavamo nell’articolo del 20 novembre su L’Economia, non bastano pur utili “aggiustamenti”, occorre ripensare in profondo il complesso dei fattori del “potere di mercato” contemporaneo. Un potere che dal mercato si proietta sulla società, incidendo su snodi essenziali della vita democratica, come la formazione dell’opinione pubblica e non solo dei “consumatori»”. Galloway, oltre ad essere considerato uno tra i 50 migliori professori di Business in America, ha una radicata esperienza del mondo dell’impresa. Ha fondato nove società, è stato in innumerevoli Consigli d’amministrazione a cominciare da quello del ‘New York Times’, ed è uno “Youtuber” affermato grazie alla sua rubrica settimanale Winner & Losers.
In 4 grandi quanto l’India
Sul potere dei big dell’hi-tech ha appena pubblicato un libro: “The Four, the Hidden Dna of Amazon, Apple, Facebook and Google”, per la Penguin, che si può acquistare, ovviamente, su Amazon. Il potere delle quattro società è reso plasticamente dal fatto che nel giro di quattro anni sono passate ad avere un valore complessivo pari a quello del prodotto interno lordo russo e quest’anno supereranno quello dell’India. Per capirne l’influenza più stretta sulla vita di ognuno di noi basti pensare che, in America, la scorsa primavera c’erano più famiglie abbonate al servizio Prime di Amazon (52%) di quelle che andavano in chiesa (51%) o di quelle che possedevano un’arma (44%). È il risultato di un mercato che ha visto regolatori deboli e forse in ritardo come spesso accade, ma anche consumatori che si sono giovati di servizi a buon prezzo se non gratuiti. Effetti perversi del capitalismo? Come dice Galloway parafrasando Churchill sulla democrazia: “Il capitalismo è il peggiore dei sistemi economici eccetto per tutti gli altri che sono stati provati”. Ma un capitalismo che è destinato a naufragare se rinunciasse ai principi base della difesa della concorrenza e del divieto di abuso di posizioni dominanti (compreso il rafforzamento di tali posizioni grazie ad abusi, come quelli sulla manipolazione dei dati di cui diremo tra un attimo). Probabilmente non basta, nell’assetto giuridico dell’economia di mercato, osservare il crescere del potere di alcune aziende per decretarne la “svestizione”, nel lessico antitrust americano. È comunque evidente, però, l’urgenza di identificare i criteri capaci di misurare effettivamente, a 360 gradi, il potere di mercato di questi come di altri colossi che verranno, e altresì di capire come e in quale direzione modificare le regole che garantiscono mercati competitivi.
L’asta per la sede di Amazon
La recente vicenda dell’asta alla quale Amazon ha chiamato le varie città americane, affinché si contendessero la seconda sede centrale del gruppo di Jeff Bezos, la dice lunga. Di fronte al fatto di poter ospitare 50mila nuovi impiegati di Amazon, è partita la gara di chi offriva terreni gratis (la California) fino a una tassazione di favore (Chicago) che mette in crisi le stesse regole di una comunità allargata come quella degli Stati Uniti. È per questo che l’individuazione dei criteri che rendono i big dell’hi-tech potenti è molto più sottile di quanto una legge Antitrust americana vecchia di 150 anni e una europea (60 anni) di derivazione Usa possano fare.
Anche noi consumatori diamo (o finiamo per dare) un forte contributo alla creazione di posizioni dominanti di mercato delle imprese. Come nel caso della presunta gratuità di certe applicazioni.
La ricerca di nuovi indici che possano aiutare nell’individuazione del reale potere di mercato dei big dell’hi-tech è forse lo scoglio maggiore. Steven Davidoff Solomon, professore a Berkeley, da tempo richiama l’attenzione sullo strumento “lobbistico”, che i web-oligarch usano (vedi da ultimo il pressing di Uber sul Senato messicano) per trasmettere i loro desiderata a parlamentari, governanti e legislatori (talora incoraggiati da generose “donazioni” ai partiti di riferimento). E ancora, sul controllo di mezzi di informazione: a parità di «quota» di mercato rilevante secondo gli indici tradizionali, il controllo di giornali e/o emittenti non dovrebbe essere percepito dal radar dell’Antitrust (Jeff Bezos ha rilevato il ‘Washington Post’ permettendogli di sopravvivere)? Le partecipazioni in imprese e gruppi operanti in settori diversi, e relativi incroci di Consigli di amministrazione, non dovrebbero essere opportunamente considerati come altri fattori di “evidenze circostanziali” di potere di mercato?
Consumatori complici consapevoli?
Anche noi consumatori diamo (o finiamo per dare) un forte contributo alla creazione di posizioni dominanti di mercato delle imprese. Come nel caso della presunta gratuità di certe applicazioni, a fronte della quale si cedono informazioni costanti sui propri consumi; ma anche al carattere esperienziale dei servizi resi attraverso i nuovi media che necessitano, per il proprio sviluppo, del contributo del consumatore (mediante impacchettamento dei servizi e conseguente blocco). L’assenza di transazioni economiche si coniuga evidentemente con la presenza di scambi di informazioni e di dati. In questa prospettiva, una questione cruciale (al di là di quella dell’ uso collusivo di tali scambi), si rivela la relazione tra i cosiddetti Big Data e la capacità di creare profili sempre più precisi degli utenti di una piattaforma. Si tratta di capire quanto questa capacità di Big Data contribuisca ad alimentare il potere di mercato di un’impresa. E in base a che cosa misurare questa capacità? E come governarla nell’interesse collettivo? In alcuni studi, come quello di Andrea Giannaccari in ‘Mercato, concorrenza regole’ dell’agosto 2017, si nota come la stessa definizione del concetto di Big Data non sia affatto semplice. Di Big Data si parla come di una sorta di nuova moneta, come ha fatto anche Margaret Vestager nel suo celebre discorso del 2016 ‘Competition in a big data world’. Una condivisa qualificazione di essi viene ormai incentrata sulle cosiddette “quattro V”: volume, velocità, varietà, valore. Ma non manca forse, all’equazione, una “T” come trasparenza?
Trasparenza e privacy negate
Pensiamo soltanto per un momento quale dibattito si scatenerebbe se l’enorme mole di dati che forniamo quotidianamente a Facebook, come a Google o Amazon, venisse immagazzinata da un organismo pubblico. Immediatamente si porrebbe un problema di penetrante controllo sulla raccolta e la gestione di quei dati. Si attiverebbe, in particolare, una pressante richiesta di trasparenza lungo tutta la filiera di utilizzo di quei dati: dall’acquisizione all’impasto (profilazione), e all’uso dei dati e dei profili diretto o per cessione a terzi (quali? A che condizioni?). Richieste pressanti di trasparenza, dunque, nella logica sostanziale di un servizio pubblico universale: tanto più che, come accennato, “sulle piattaforme i dati sono oggetto di uno scambio economico, anche se il consumatore non ha consapevolezza al momento della cessione”, come scrive Gabriella Muscolo in un libro in uscita intitolato proprio ‘Informazione e Big Data tra innovazione e concorrenza’. Quelle stesse esigenze sostanziali di servizio pubblico non possono essere disattese solo perché i gestori/controllori del traffico dei Big Data sono soggetti privati. Quale differenza può questo fare rispetto alla soddisfazione di interessi generali? La logica del servizio pubblico è “universale»” rispetto non solo alla platea degli utenti, ma anche a quella dei fornitori. In questo senso – specie per la responsabilizzazione di tutte le imprese che trattano e gestiscono dati – suscita qualche speranza il regolamento europeo sulla data protection del 2016, che entrerà in vigore il prossimo 25 maggio. Speriamo regga alla prova di un’attuazione non burocratica e farraginosa, che renderebbe impraticabili dal cittadino i diritti affermati sulla carta. Ma comunque, nemmeno questa misura è idonea a ricondurre a compatibilità concorrenziale il “potere di mercato” degli oligarchi della Rete. Il problema del controllo della loro “superdominanza” rimane dunque intero. E anzi, si è fatto più arduo. Avendo le grandi imprese modificato radicalmente i modelli di business e inventatone di nuovi, per la protezione della concorrenza diventa ancora più necessario aggiornare la cassetta degli attrezzi dell’Antitrust dotandola di nuovi strumenti come quelli che abbiamo descritto prima. Nemmeno Adam Smith pensava che il mercato medichi se stesso. Quando il potere si fa gigantesco, chi lo detiene resiste a tutto, per dirla con Wilde, tranne che alla tentazione di abusarne. L’aveva ben visto il geniale cinismo di Napoleone Bonaparte: “A che serve il potere se non se ne abusa?”.