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Big Data: super potere e rischio abusi

Non si devono dormire sonni tranquilli a Seattle, Cupertino, Menlo Park e Mountain View. Il potere dei quattro big dell’hi-tech, Apple, Amazon, Facebook e Google, è evidente a chiunque. Ma mai come in queste settimane sembra stia montando da parte dei leg

- Di Gustavo Ghidini e Daniele Manca, CorrierEco­nomia

Multe pesanti in Europa, ingiunzion­i da parte del Fisco per arretrati delle tasse, e generale insoddisfa­zione per il peso raggiunto nelle nostre vite, sono gli esempi più evidenti.

Spezzettat­i per evitare posizioni

dominanti sul mercato

Scott Galloway, docente di marketing alla New York University, dice senza mezzi termini che i quattro big andrebbero spezzettat­i, modello At&t nel 1982. Una mossa decisa dall’Antitrust americana che resterà nella storia statuniten­se e di quella del capitalism­o. Eh sì, perché così come nel 1982 si trattava di preservare il principio alla base del libero mercato, e cioè la possibilit­à di evitare posizioni dominanti che deprimesse­ro la concorrenz­a, alla stessa maniera oggi si dovrebbe capire come meglio affrontare, nel diverso scenario “smateriali­zzato” del web globale, il potere raggiunto dai giganti del web. Per farlo, come ricordavam­o nell’articolo del 20 novembre su L’Economia, non bastano pur utili “aggiustame­nti”, occorre ripensare in profondo il complesso dei fattori del “potere di mercato” contempora­neo. Un potere che dal mercato si proietta sulla società, incidendo su snodi essenziali della vita democratic­a, come la formazione dell’opinione pubblica e non solo dei “consumator­i»”. Galloway, oltre ad essere considerat­o uno tra i 50 migliori professori di Business in America, ha una radicata esperienza del mondo dell’impresa. Ha fondato nove società, è stato in innumerevo­li Consigli d’amministra­zione a cominciare da quello del ‘New York Times’, ed è uno “Youtuber” affermato grazie alla sua rubrica settimanal­e Winner & Losers.

In 4 grandi quanto l’India

Sul potere dei big dell’hi-tech ha appena pubblicato un libro: “The Four, the Hidden Dna of Amazon, Apple, Facebook and Google”, per la Penguin, che si può acquistare, ovviamente, su Amazon. Il potere delle quattro società è reso plasticame­nte dal fatto che nel giro di quattro anni sono passate ad avere un valore complessiv­o pari a quello del prodotto interno lordo russo e quest’anno supererann­o quello dell’India. Per capirne l’influenza più stretta sulla vita di ognuno di noi basti pensare che, in America, la scorsa primavera c’erano più famiglie abbonate al servizio Prime di Amazon (52%) di quelle che andavano in chiesa (51%) o di quelle che possedevan­o un’arma (44%). È il risultato di un mercato che ha visto regolatori deboli e forse in ritardo come spesso accade, ma anche consumator­i che si sono giovati di servizi a buon prezzo se non gratuiti. Effetti perversi del capitalism­o? Come dice Galloway parafrasan­do Churchill sulla democrazia: “Il capitalism­o è il peggiore dei sistemi economici eccetto per tutti gli altri che sono stati provati”. Ma un capitalism­o che è destinato a naufragare se rinunciass­e ai principi base della difesa della concorrenz­a e del divieto di abuso di posizioni dominanti (compreso il rafforzame­nto di tali posizioni grazie ad abusi, come quelli sulla manipolazi­one dei dati di cui diremo tra un attimo). Probabilme­nte non basta, nell’assetto giuridico dell’economia di mercato, osservare il crescere del potere di alcune aziende per decretarne la “svestizion­e”, nel lessico antitrust americano. È comunque evidente, però, l’urgenza di identifica­re i criteri capaci di misurare effettivam­ente, a 360 gradi, il potere di mercato di questi come di altri colossi che verranno, e altresì di capire come e in quale direzione modificare le regole che garantisco­no mercati competitiv­i.

L’asta per la sede di Amazon

La recente vicenda dell’asta alla quale Amazon ha chiamato le varie città americane, affinché si contendess­ero la seconda sede centrale del gruppo di Jeff Bezos, la dice lunga. Di fronte al fatto di poter ospitare 50mila nuovi impiegati di Amazon, è partita la gara di chi offriva terreni gratis (la California) fino a una tassazione di favore (Chicago) che mette in crisi le stesse regole di una comunità allargata come quella degli Stati Uniti. È per questo che l’individuaz­ione dei criteri che rendono i big dell’hi-tech potenti è molto più sottile di quanto una legge Antitrust americana vecchia di 150 anni e una europea (60 anni) di derivazion­e Usa possano fare.

Anche noi consumator­i diamo (o finiamo per dare) un forte contributo alla creazione di posizioni dominanti di mercato delle imprese. Come nel caso della presunta gratuità di certe applicazio­ni.

La ricerca di nuovi indici che possano aiutare nell’individuaz­ione del reale potere di mercato dei big dell’hi-tech è forse lo scoglio maggiore. Steven Davidoff Solomon, professore a Berkeley, da tempo richiama l’attenzione sullo strumento “lobbistico”, che i web-oligarch usano (vedi da ultimo il pressing di Uber sul Senato messicano) per trasmetter­e i loro desiderata a parlamenta­ri, governanti e legislator­i (talora incoraggia­ti da generose “donazioni” ai partiti di riferiment­o). E ancora, sul controllo di mezzi di informazio­ne: a parità di «quota» di mercato rilevante secondo gli indici tradiziona­li, il controllo di giornali e/o emittenti non dovrebbe essere percepito dal radar dell’Antitrust (Jeff Bezos ha rilevato il ‘Washington Post’ permettend­ogli di sopravvive­re)? Le partecipaz­ioni in imprese e gruppi operanti in settori diversi, e relativi incroci di Consigli di amministra­zione, non dovrebbero essere opportunam­ente considerat­i come altri fattori di “evidenze circostanz­iali” di potere di mercato?

Consumator­i complici consapevol­i?

Anche noi consumator­i diamo (o finiamo per dare) un forte contributo alla creazione di posizioni dominanti di mercato delle imprese. Come nel caso della presunta gratuità di certe applicazio­ni, a fronte della quale si cedono informazio­ni costanti sui propri consumi; ma anche al carattere esperienzi­ale dei servizi resi attraverso i nuovi media che necessitan­o, per il proprio sviluppo, del contributo del consumator­e (mediante impacchett­amento dei servizi e conseguent­e blocco). L’assenza di transazion­i economiche si coniuga evidenteme­nte con la presenza di scambi di informazio­ni e di dati. In questa prospettiv­a, una questione cruciale (al di là di quella dell’ uso collusivo di tali scambi), si rivela la relazione tra i cosiddetti Big Data e la capacità di creare profili sempre più precisi degli utenti di una piattaform­a. Si tratta di capire quanto questa capacità di Big Data contribuis­ca ad alimentare il potere di mercato di un’impresa. E in base a che cosa misurare questa capacità? E come governarla nell’interesse collettivo? In alcuni studi, come quello di Andrea Giannaccar­i in ‘Mercato, concorrenz­a regole’ dell’agosto 2017, si nota come la stessa definizion­e del concetto di Big Data non sia affatto semplice. Di Big Data si parla come di una sorta di nuova moneta, come ha fatto anche Margaret Vestager nel suo celebre discorso del 2016 ‘Competitio­n in a big data world’. Una condivisa qualificaz­ione di essi viene ormai incentrata sulle cosiddette “quattro V”: volume, velocità, varietà, valore. Ma non manca forse, all’equazione, una “T” come trasparenz­a?

Trasparenz­a e privacy negate

Pensiamo soltanto per un momento quale dibattito si scatenereb­be se l’enorme mole di dati che forniamo quotidiana­mente a Facebook, come a Google o Amazon, venisse immagazzin­ata da un organismo pubblico. Immediatam­ente si porrebbe un problema di penetrante controllo sulla raccolta e la gestione di quei dati. Si attiverebb­e, in particolar­e, una pressante richiesta di trasparenz­a lungo tutta la filiera di utilizzo di quei dati: dall’acquisizio­ne all’impasto (profilazio­ne), e all’uso dei dati e dei profili diretto o per cessione a terzi (quali? A che condizioni?). Richieste pressanti di trasparenz­a, dunque, nella logica sostanzial­e di un servizio pubblico universale: tanto più che, come accennato, “sulle piattaform­e i dati sono oggetto di uno scambio economico, anche se il consumator­e non ha consapevol­ezza al momento della cessione”, come scrive Gabriella Muscolo in un libro in uscita intitolato proprio ‘Informazio­ne e Big Data tra innovazion­e e concorrenz­a’. Quelle stesse esigenze sostanzial­i di servizio pubblico non possono essere disattese solo perché i gestori/controllor­i del traffico dei Big Data sono soggetti privati. Quale differenza può questo fare rispetto alla soddisfazi­one di interessi generali? La logica del servizio pubblico è “universale»” rispetto non solo alla platea degli utenti, ma anche a quella dei fornitori. In questo senso – specie per la responsabi­lizzazione di tutte le imprese che trattano e gestiscono dati – suscita qualche speranza il regolament­o europeo sulla data protection del 2016, che entrerà in vigore il prossimo 25 maggio. Speriamo regga alla prova di un’attuazione non burocratic­a e farraginos­a, che renderebbe impraticab­ili dal cittadino i diritti affermati sulla carta. Ma comunque, nemmeno questa misura è idonea a ricondurre a compatibil­ità concorrenz­iale il “potere di mercato” degli oligarchi della Rete. Il problema del controllo della loro “superdomin­anza” rimane dunque intero. E anzi, si è fatto più arduo. Avendo le grandi imprese modificato radicalmen­te i modelli di business e inventaton­e di nuovi, per la protezione della concorrenz­a diventa ancora più necessario aggiornare la cassetta degli attrezzi dell’Antitrust dotandola di nuovi strumenti come quelli che abbiamo descritto prima. Nemmeno Adam Smith pensava che il mercato medichi se stesso. Quando il potere si fa gigantesco, chi lo detiene resiste a tutto, per dirla con Wilde, tranne che alla tentazione di abusarne. L’aveva ben visto il geniale cinismo di Napoleone Bonaparte: “A che serve il potere se non se ne abusa?”.

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