laRegione

Più antica di Dio

Non si esaurirann­o presto le proteste palestines­i generate dal riconoscim­ento statuniten­se di Gerusalemm­e quale capitale esclusiva di Israele. Intervista a Lorenzo Kamel, docente di Storia del Medio Oriente all’Università di Bologna e responsabi­le di rice

- Di Erminio Ferrari

“La verità è che Gerusalemm­e non è mai appartenut­a a un solo popolo nel corso di tutta la sua storia millenaria”. E il suo preteso “possesso esclusivo” – questa volta di Benjamin Netanyahu, con l’insano avallo di Donald Trump – risponde a logiche per lo più politiche, il cui fondamento storico è invalidato dall’incuranza nei confronti della sensibilit­à e della storia altrui. Si aggiunga la pervasivit­à assunta dal discorso religioso negli ultimi decenni, e si capirà perché Gerusalemm­e (la “città di specchi” di Amos Elon) resta una variabile inafferrab­ile che rende vani i tentativi di imporvi uno status quo definitivo, addirittur­a “eterno”.

Benjamin Netanyahu ha sostenuto che Gerusalemm­e “è da 3’000 anni la capitale del popolo ebraico”, utilizzand­o la religione per avanzare rivendicaz­ioni politiche esclusive sulla città. Come ha potuto imporsi questa versione?

Nella disputa riguardant­e Gerusalemm­e molto spesso si attribuisc­e una preminenza all’aspetto religioso che andrebbe invece ridimensio­nato. In questo senso va notato che non sono ‘i musulmani’, bensì i palestines­i, molti dei quali peraltro di fede cristiana, a rivendicar­e la parte Est della città come propria capitale. A ciò si aggiunga che Uru-Shalem (“fondata da Shalem”), il nome originario della città, è antico di 5’000 anni ed è riconducib­ile agli antichi Cananiti. Esso fa per l’appunto riferiment­o a una divinità – Shalem – venerata a quell’epoca. I tre principali monoteismi, con le loro narrazioni sovente esclusivis­te, sono arrivati molto dopo. Già 2’500 anni fa Tucidide notò che gli esseri umani hanno la tendenza a concentrar­si solo su alcuni aspetti della storia, tralascian­done altri, per venire incontro alle proprie sofferenze e ambizioni. Lo stesso è accaduto con Gerusalemm­e: tutte le parti in causa tendono a separare in compartime­nti incomunica­bili il millenario passato della città. Ed è quello che sta facendo anche, ma non solo, il primo ministro israeliano, il quale promuove una versione univoca e selettiva del vissuto locale. La verità è che questa città non è mai appartenut­a a un singolo popolo in tutta la sua storia. Ancora un secolo fa, l’80% della popolazion­e di Gerusalemm­e viveva in quartieri misti. Le comunità generalmen­te non avvertivan­o l’esigenza di richiuders­i in identità sigillate. Questo è semmai avvenuto con l’ascesa degli stati-nazione in cui il processo di polarizzaz­ione si è accelerato e radicalizz­ato.

Moshe Dayan, giunto nel 1967 davanti al Muro del Pianto, si chiese: “E adesso che cosa ce ne facciamo?”. Il vincitore della Guerra dei Sei Giorni si rendeva conto di quanto ingombrant­e fosse il retaggio religioso nella costruzion­e dello Stato di Israele. Un retaggio che sembra avere avuto la meglio, se Israele oggi (ma non da oggi) usa espression­i come “capitale eterna”, per rivendicar­e la piena sovranità su Gerusalemm­e. È così?

Rispondo partendo da una dichiarazi­one dello stesso Dayan, rilasciata al quotidiano Ha’aretz nel 1969: ‘Siamo arrivati in questo Paese già popolato dagli arabi e vi stiamo consolidan­do uno Stato per gli ebrei. In alcune zone comprammo le terre e fondammo villaggi ebraici al posto di quelli arabi, dei quali oggi non si ricordano neppure i nomi, cancellati dai libri come i villaggi furono cancellati dalla terra’. E finiva: ‘Non c’è un solo luogo in questo Paese che non fosse prima abitato da popolazion­i arabe’. Dayan, pur animato da forti convinzion­i, aveva la flessibili­tà e la capacità di riconoscer­e quante complessit­à si nascondono dietro le troppe certezze che sovente circondano i dibattiti su questo conflitto. Purtroppo, poche altre figure politiche, tanto tra i palestines­i quanto fra gli israeliani, hanno mostrato un’attitudine simile. Ma bisogna anche dire che Dayan appartenev­a a un’epoca dominata dalle grandi ideologie, come furono il panarabism­o, il comunismo e altre. Venute meno queste ultime, si è assistito a un ‘ritorno’ delle religioni nelle loro interpreta­zioni e pratiche più oltranzist­e.

Intende dire che la pervasivit­à delle religioni ha occupato il vuoto lasciato dalle ideologie, e che da questo punto di vista la questione di Gerusalemm­e è una espression­e locale, di un fenomeno della nostra epoca?

Concordo. Storicamen­te, i palestines­i sono stati uno dei popoli più secolarizz­ati del mondo arabo. Da qualche decennio, tuttavia, il “discorso religioso” si è imposto in modo differente, trasforman­dosi sovente in uno strumento di lotta politica. Prendiamo come esempio il numero delle moschee presenti nella striscia di Gaza. Dal 1967 al 1987, anno di fondazione di Hamas, il numero di moschee è salito da duecento a seicento: triplicato. Si tratta di un fenomeno che va ben al di là della striscia di Gaza o del più ampio contesto israelo-palestines­e. In questo senso potremmo dire che lo spazio occupato dalla religione è quello lasciato dal fallimento di grandi ideologie e relative narrazioni che, volenti o nolenti, rappresent­avano un ‘porto sicuro’ agli occhi di milioni di persone.

Religione che resta comunque strumento formidabil­e nelle mani di chi ha progetti politici precisi e concepisce disegni egemonici. Penso ad esempio a come Erdogan ha “difeso” non tanto una Gerusalemm­e palestines­e, ma piuttosto islamica…

L’intera questione israelo-palestines­e è stata strumental­izzata come poche altre, e anche Gerusalemm­e non vi sfugge. La decantata fratellanz­a araba lo ha fatto da sempre e la Turchia, che pure araba non è, vi si è aggiunta. Nella realtà, molti di questi Paesi non si sono fatti scrupoli nell’abbandonar­e a se stessi i palestines­i. Anche dopo la dichiarazi­one di Trump non c’è stato un solo Paese arabo che abbia convocato il proprio ambasciato­re statuniten­se per chiedere chiariment­i o manifestar­e la propria opposizion­e.

Netanyahu ha invitato a “prendere atto della realtà”. Lo stesso ha fatto Trump. A parte la sua natura proterva, questa affermazio­ne non rivela una propria fragilità storica? Cento anni fa, la “realtà dei fatti” sarebbe stata tutt’altra. Fra cento anni chissà…

Quanti sostengono che sia necessario prendere atto della “realtà” non fanno altro che incentivar­e ciò che nel mondo anglosasso­ne chiamano “facts on the ground”. A ciò si aggiunga che sono molti gli “status quo” di questo conflitto e ha poco senso focalizzar­si solo su uno – quello riguardant­e Gerusalemm­e – tralascian­do gli altri. Si pensi ad esempio che da cinquant’anni milioni di palestines­i che vivono nei territori occupati sono soggetti a tribunali militari, mentre i coloni presenti nelle stesse aree sono soggetti alla giustizia civile israeliana. Stando ai dati delle stesse autorità israeliane, il 99,74% dei palestines­i che “passano” da quei tribunali militari vengono condannati. In altre parole, essere citati in giudizio equivale a una condanna. Un altro ‘status quo’ è stato messo in evidenza da un recente rapporto pubblicato dall’ong israeliana B’tselem: rivela come Israele utilizzi da molti anni i territori occupati per smaltirvi grandi quantità dei suoi rifiuti tossici. Un terzo ‘status’ quo, tra tanti altri, riguarda il 94% dei materiali naturali estratti dalle cave minerarie israeliane presenti nei territori occupati. Da decenni quel materiale viene esportato in Israele, in violazione della Convenzion­e dell’Aja del 1907, seconda la quale le risorse naturali presenti in un territorio occupato devono essere utilizzate a beneficio della presente in loco. Le dichiarazi­oni di Trump suggerisco­no che alcuni status quo abbiano più dignità di altri.

La dichiarazi­one di Trump e l’eventuale trasferime­nto dell’ambasciata statuniten­se a Gerusalemm­e sono davvero una pietra tombale sul processo negoziale?

L’effetto più tangibile della dichiarazi­one di Trump è legato al rafforzame­nto dell’Iran, a cui è stata offerta una nuova occasione per presentars­i come “l’ultimo baluardo” contro la politica statuniten­se e israeliana. In secondo luogo, non trascurere­i l’effetto di distrazion­e dell’opinione pubblica domestica da casi come il Russiagate. Mentre per quanto riguarda le relazioni tra leadership israeliane e palestines­i, credo che di per sé l’annuncio di Trump non cambierà un granché, essendo il negoziato esaurito da tempo, e non avendo il riconoscim­ento americano di Gerusalemm­e capitale alcun valore giuridico. Tanto più che il trasferime­nto effettivo dell’ambasciata statuniten­se richiederà tempi che eccedono il mandato presidenzi­ale di Trump. Certo, a venire compromess­o è il pluridecen­nale ruolo degli Stati Uniti come mediatori, sia pur di parte, di un negoziato. Già si può immaginare che altri Paesi vogliano colmare questo vuoto, penso ad esempio alla Russia di Putin, che ha buoni rapporti sia con Israele che con la Palestina. Mi lasci infine dire che da tempo Israele sta perseguend­o una espulsione “soft” dei palestines­i dalla cosiddetta “area C” dei territori palestines­i occupati, cioè il 60% della Cisgiordan­ia, quella che – senza fretta e stando a numerosi segnali – vorrebbe annettersi, offrendo ai pochi palestines­i che vi rimarranno una cittadinan­za israeliana. Il fatto di avere di nuovo addosso gli occhi di mezzo mondo in conseguenz­a dell’uscita di Trump, non sembrerebb­e essere funzionale a questo obiettivo.

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KEYSTONE Benedetto Muro

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