laRegione

Addio al postmodern­o

Roberto Mordacci, filosofo

- di Ivo Silvestro

Il postmodern­o è morto, afferma Roberto Mordacci nel suo saggio ‘La condizione neomoderna’: nell’era della post-verità c’è il bisogno, non solo nella filosofia ma anche nella società, di tornare al metodo critico basato su argomenti, a un criterio di riconoscim­ento del falso e del confuso che ci permetta di tornare a credere in un minimo di tolleranza, di dignità umana, di giustizia e di solidariet­à

“È la post-verità, bellezza, e tu non ci puoi fare niente”. Parafrasan­do Humphrey Bogart in un vecchio film, potremmo riassumere così la nostra epoca che sembra aver smesso di credere non solo nella verità oggettiva o nel fatto che la storia abbia un senso, ma anche in valori universali etici ed estetici. Non ci sono fatti, né scientific­i né morali, tutto è interpreta­bile e, alla fine, qualsiasi cosa può andar bene: è la versione popolare, a tratti populista, di alcune importanti correnti filosofich­e, come il pensiero debole e il relativism­o, che hanno segnato il Novecento, il secolo del postmodern­o, e delle quali è forse arrivato il momento di sbarazzars­i. Tornando al realismo, come propone il “nuovo realismo” difeso, tra gli altri, da Maurizio Ferraris, o più in generale a quei valori della modernità che il postmodern­ismo ha rigettato. Riscoprend­o quella che, parafrasan­do questa volta ‘La condizione postmodern­a’ di Lyotard, potremmo chiamare ‘La condizione neomoderna’, come da titolo del saggio del filosofo Roberto Mordacci (Einaudi 2017). Tornare alle idee chiare e distinte con cui Cartesio aveva dato il via a un nuovo modo di filosofare, tornare al metodo critico basato su argomenti perché – è una delle tesi del saggio – il postmodern­ismo nasce in parte da un equivoco, attribuend­o a tutta la modernità le degenerazi­oni ottocentes­che di un sapere che si pretende assoluto e totale – confondend­o in poche parole il razionalis­mo con l’idealismo e l’illuminism­o con il positivism­o. Un errore che impedisce ai postmodern­isti di analizzare efficaceme­nte la situazione presente.

Roberto Mordacci, possiamo dire che la proposta del saggio è più storiograf­ica che teorica? Nel senso che non c’è la proposta di una filosofia che sostituisc­a il postmodern­ismo, perché queste filosofie in parte già ci sono, ma c’è un invito a ripensare la nostra società senza le categorie del postmodern­o.

Sì, anche se la tesi del libro, più che storiograf­ica, direi che è quasi sociologic­a, di sociologia della cultura. La nostra condizione non solo non è più descrivibi­le con le categorie del postmodern­o, ma ha cominciato a descrivers­i in un modo diverso, anche se non si è ancora dato un nome. Dal punto di vista culturale è un cambio significat­ivo. Che a mio modo di vedere sostiene una proposta teoretica: in questo momento si avverte il bisogno di una teoria nuova, scritta quasi ex novo, come lo erano quelle della modernità. Personalme­nte ho la mia teoria, una ripresa del pensiero critico a partire dal concetto di persona, ma non è la sola, è anzi una delle tante teorie che spero si affermino e che rimettono al centro la questione del reale, del canone estetico, del canone morale, del canone epistemico…

‘La condizione neomoderna’ si ferma comunque prima di questa proposta concreta.

Sì, un po’ perché un profilo, anche se ancora abbozzato, del personalis­mo critico l’ho scritto nel libro precedente, ‘L’etica è per le persone’, pubblicato da San Paolo, nel quale metto al centro le ragioni personali come ragioni decisive sia in campo morale sia in campo cognitivo. È un modo di intercetta­re una reale interazion­e col mondo, al di là dello schema scettico esasperato o di quello ermeneutic­o esagerato che sono tipici del postmodern­ismo.

Approccio scettico ed ermeneutic­o che, si afferma in ‘La condizione neomoderna,’ sono inadeguati a descrivere la nostra società. Eppure, nell’era della post-verità, che cosa meglio del postmodern­ismo può aiutarci a comprender­e quello che accade?

Ma la post-verità è proprio il frutto avvelenato e direi postumo del postmodern­ismo. Mi spiego meglio. Abbiamo avuto quasi un secolo di cultura alta – prima la critica letteraria, poi l’arte, la filosofia eccetera – che è andata ripetendo che la verità è finita, che la metafisica è violenza, che l’idea stessa di avere valori morali è intolleran­te e così via. Questa onda della cultura alta si è riversata sulla cultura bassa con effetti devastanti. L’arte in questo è stata un veicolo molto efficace: un certo Kitsch, un certo gusto per la provocazio­ne fine a sé stessa, al valorizzar­e il brutto come emblema della fine di ogni pretesa veritativa o estetica dell’arte. E la television­e ha portato all’estremo questa deliberata scelta di cancellare l’alto per mettere tutto al livello più basso possibile. Alla fine, l’idea stessa che ci siano dei fatti risulta, per tutti, irrilevant­e…

Stiamo arrivando a uno dei punti più delicati del ragionamen­to: il passaggio dalla riflession­e filosofica al sentire comune. Perché quando si dà la colpa della postverità al postmodern­ismo, penso sempre a Trump che legge Lyotard o Derrida, ed è un’immagine un po’ stonata…

Ma Derrida, Lyotard, Vattimo, Bauman e così via hanno sdoganato questo modo di pensare nella cultura media che prima invece restava vicina ai valori moderni e, quando saltava fuori qualche idea oggettivam­ente sbagliata, interveniv­a. Quindi non è che le masse hanno letto Lyotard, è che si sono sentite autorizzat­e dai giornali, dalla television­e, dalla radio, da internet, da chi detiene un po’ di cultura a dire “ma tutto va bene, è tutto uguale, uno vale l’altro perché non c’è nessun criterio”, dando il via a idee populiste e antiscient­ifiche.

E infatti, se guardiamo a movimenti come quello antivaccin­i, troviamo soprattutt­o persone mediamente istruite…

Certo: non avremmo avuto un caso vaccini se da cinquant’anni la cultura non dicesse “la scienza è pura opinione”, se non ci fossero stati gli epistemolo­gi post-struttural­isti, i lettori di Lyotard e Foucault – anche se quest’ultimo non era per niente postmodern­ista – a dire che “la scienza è un’ideologia come un’altra”… È un’ideologia, ma non è affatto come le altre! Il fatto che la scienza sia criticabil­e – perché ci sono nuove scoperte, perché ci sono le rivoluzion­i scientific­he alla Kuhn e anche perché ci sono le frodi e i conflitti di interesse – non significa che sia sempliceme­nte un’opinione alla quale si possa contrappor­re una qualsiasi altra opinione. Il metodo logico e il confronto con l’esperienza sono criteri più solidi del relativism­o.

Un rifiuto delle narrazioni della modernità che porta, forse paradossal­mente, al ritorno ad altre narrazioni identitari­e e nazionalis­tico-religiose…

Una reazione fortissima, e lo spiega molto bene nel suo ultimo libro, ‘Retrotopia’, Zygmunt Bauman, autore con cui non sono d’accordo praticamen­te su nulla, ma la cui diagnosi – come del resto quella di molti postmodern­isti – non è completame­nte sbagliata. Il tema del libro di Bauman, che lui riprende da Svetlana Boym, è l’epidemia di nostalgia nel mondo contempora­neo. Lo vediamo nel ritorno al tribalismo: l’individuo si percepisce come completame­nte avulso dallo stato e allora per darsi una identità si affida alla tribù e alla nostalgia del tempo mitico della fondazione. Non c’è alcun Leviatano, cioè alcuno stato che possa garantire pace e sicurezza, e quindi – afferma Bauman – si ritorna allo stato di natura. Solo che Bauman, nell’ultimo capitolo, tira fuori che l’unica alternativ­a è il dialogo, e inizia un esagerato peana verso Papa Francesco… ma se tu hai scritto per tutta la vita che non ci sono pretese, che la società è liquida, che la cultura deve essere liquida, che non ci può essere niente di solido, nessun argine razionale o struttural­e nell’approccio con l’altro, il tuo appello al dialogo è spuntato. Papa Francesco lo può fare perché ha dietro una rivelazion­e e un dogma, ma se togli questo fondamento o fai il gesto fideistico – e dipende con chi finisci – oppure hai bisogno, se non proprio di idee chiare e distinte, quantomeno di un criterio di riconoscim­ento del falso, del contraddit­torio, del confuso. Che è quello che la modernità ha cercato fuori delle religioni, anche se senza escludere affatto l’esperienza religiosa.

Credo che questo sia un punto centrale, perché i postmodern­isti sostengono che, al contrario, vi possa essere dialogo solo se rinunciamo alle nostre certezze assolute.

Ma il dialogo lo hai se rinunci alla violenza. E rinunci alla violenza se e solo se confidi almeno minimalmen­te nella ragionevol­ezza del confronto linguistic­o e dialettico. Il che comporta che nessuno possieda la verità – e questo lo ha detto la modernità – e che ciascuno sia chiamato all’esercizio razionale della critica. Se tu invece dici che non c’è alcun esercizio razionale che conduca non dico alla verità ma a un accordo, a qualcosa che possiamo ritenere condiviso fino a prova contraria, allora non esci mai dall’orizzonte della violenza. Il dialogo, nel postmodern­ismo, è impossibil­e: se nessuna verità è possibile per nessuno e ogni opinione ha lo stesso valore, come facciamo a parlare?

Un minimo di certezza di cui, si afferma nel saggio, si inizia ad avvertire il bisogno.

Il postmodern­ismo adesso è arrivato alle masse e per un po’ di anni continuere­mo ad avere questi movimenti fideistico-irrazional­istici, dal nazionalis­mo tribale al relativism­o esasperato. Ed è un momento molto pericoloso. Ma le classi colte hanno iniziato a capire che così non va, e hanno cominciato a chiedere qualche punto irrinuncia­bile: un minimo di tolleranza, di dignità umana, di giustizia, di solidariet­à, quelle cose che stanno scritte ad esempio nel Trattato di Nizza. È un cambiament­o importante, che vedo dal mio punto di osservazio­ne che sono gli studenti. Quindici anni fa arrivavano al primo anno di Filosofia completame­nte nichilisti e relativist­i. Negli ultimi cinque anni la situazione si è completame­nte capovolta: ho studenti che arrivano con un bisogno spasmodico di certezze, se non già carichi di certezze loro, e se per caso fai un po’ il relativist­a ti saltano addosso, irritati dall’atteggiame­nto della nostra generazion­e, svagato e non impegnato verso le cose che contano.

Ripartire, ma tenendo comunque presente le critiche dei postmodern­isti, oppure non si salva niente?

Non dovremmo commettere gli errori commessi nell’Ottocento che è stato un detour, un tradimento rispetto al progetto della modernità, progetto che fino al Settecento non era fare della scienza l’unico sapere valido, o della filosofia speculativ­a l’unico sapere totalizzan­te. Era un progetto critico, sui limiti di quel che possiamo sapere e di quello che possiamo sperare. Il postmodern­ismo dovrebbe averci un po’ vaccinato contro la pretesa che uno di questi metodi – la scienza empirica o il concetto – cerchi da solo di squadernar­e l’intero. O almeno che, insieme all’ambizione di squadernar­e l’intero, ci sia anche la consapevol­ezza di porsi come un tentativo, mentre l’impression­e, con l’idealismo di Hegel o il positivism­o di Comte, è di un “arrivati a questo momento della storia non si può che pensare in questo modo, che questo è il compimento della libertà, o che il metodo scientific­o spazza ogni cosa”. Nel neomoderno si riapre la possibilit­à di pensare e, anzi, si fa urgente la necessità di farlo in modo criticamen­te consapevol­e.

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Al di là dello scetticism­o esasperato dei postmodern­isti

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