Tra fiction e realtà il Male di Gomorra
Ragazzini accoltellati, adolescenti che sparano ad altezza uomo, la realtà che emula la finzione. C’è chi punta il dito contro ‘Gomorra’. E l’intelligenza libera e responsabile dello spettatore?
Aharon Appelfeld, uno dei più apprezzati e prolifici scrittori israeliani, infaticabile narratore dell’ebraismo europeo degli anni antecedenti e di quelli seguiti alla Shoah, si è spento a Gerusalemme all’età di 85 anni. Era nato in un piccolo villaggio nei Monti Carpazi, a suo tempo in Romania e oggi situato in Ucraina. Fluente in varie lingue, fra cui lo yiddish (idioma ebraico dell’Europa orientale) e il tedesco, apprese l’ebraico solo dopo la sua immigrazione in Israele. Ma presto seppe padroneggiarlo alla perfezione. In un’intervista alla radio militare Amos Oz ha ricordato con commozione di essersi avvicinato alla letteratura quando era ancora ragazzo in un Kibbutz durante le lezioni tenute da Appelfeld, che era approdato in Israele non molto prima. Autore di una cinquantina di romanzi, sono molti i libri di Appelfeld tradotti in italiano, per la maggior parte da Guanda ma anche da Giuntina e Feltrinelli. Fra questi, in cui lo scrittore, sopravvissuto all’Olocausto, ha saputo dar voce alla sua terribile esperienza facendone un tema universale, ‘Badenheim 1939’, ‘Storia di una vita’, ‘Paesaggio con bambina’, ‘Il ragazzo che voleva dormire’, ‘Fiori nelle tenebre’, ‘Una bambina da un altro mondo’, ‘L’amore, d’improvviso’, ‘Oltre la disperazione’, ‘Il partigiano Edmond’, ‘Fiori nelle tenebre’, ‘Giorni luminosi’, ‘Il mio nome è Caterina’ e ‘Storia di una vita’. All’origine dell’opera monumentale di Appelfeld c’è la sua travagliata infanzia da cui avrebbe tratto (a volte con sua “sorpresa’’) infiniti spunti. Nell’ultima intervista, al giornale ‘Makor Rishon’, ha ricordato di essere nato in una famiglia di ebrei laici. Con l’occupazione tedesca del suo villaggio, iniziò lo sterminio degli ebrei. Sua madre fu uccisa a breve distanza da lui (“Sentii il suo lungo urlo, poi più niente’’). In spalla il padre lo portò in una marcia forzata verso un campo di concentramento. Aveva otto anni quando riuscì a fuggire da solo, vivendo nei boschi. Poi si sarebbe imbattuto in malviventi, che gli diedero assistenza ignorando che fosse ebreo. Visse da una prostituta, frequentò ladri di cavalli. “Fu quella la mia scuola’’, ha commentato. Questi elementi sarebbero poi tornati in numerosi suoi libri, fra cui il celebre ‘Fiori nelle tenebre’. “Per Appelfeld – ha osservato Oz – la Shoah era una sorta di Chernobyl’’: ossia un luogo talmente terribile da non consentire ad alcuno di avvicinarsi. Nei suoi libri non ci sono camere a gas né descrizioni di altri orrori: “Perché le parole – spiegava – non bastano’’. Preferiva raccontare la Shoah “come una storia d’amore: l’amore per i genitori o i nonni perduti. La riconoscenza per uno sguardo di compassione ricevuto in un ambiente ostile, o per una mezza fetta di pane regalata da una persona affamata”. Nelle sue peregrinazioni – osservava – si era imbattuto “in preziosi momenti di amore e di nobiltà d’animo’’. Uscito in ebraico poche settimane fa, il suo ultimo romanzo s’intitola ‘Giorni luminosi’ (in Italia uscirà per Guanda il 25 gennaio): ancora una volta un richiamo alla sua sensazione di essere rimasto inchiodato ai ricordi d’infanzia. A.B.