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Se la cabina va in pensione…

- Di Matteo Caratti

C’era una volta una cabina dotata di porta e vetri ai lati, con al suo interno un aggeggio che serviva a telefonare. Da noi, quella struttura chiamata cabina telefonica, si trovava in ogni comune. Quando andavamo al mare in Italia, se volevamo telefonare, dovevamo metterci in fila, con un bel po’ di gettoni e armati di pazienza. Ma la noia dell’attesa era spesso mitigata dall’ascolto di qualche telefonata di chi ti aveva preceduto… Visitando il museo delle comunicazi­oni di Berna, spiegherem­o così ai nostri nipoti la storia delle cabine telefonich­e ora inviate in pensione e magari trasformat­esi in vivaci mini-bibliotech­e. Il tempo passa e le tecnologie evolvono, certo. Alcuni di noi hanno appena fatto in tempo a vedere i telefoni avvitati alla parete di casa, con una rotellona che ci metteva alcuni secondi per tornare indietro, con sopra due robusti e squillanti campanelli e, sotto, attaccato a una corda da pacchi, appeso e ondeggiant­e anche il pesante elenco del telefono. Per saperlo usare già da piccoli era importante conoscere a menadito l’alfabeto. Già allora c’era un’eccezione: la città di Lugano che veniva prima di tutte le altre località del Ticino. Unico cambiament­o? Nossignori, già da qualche tempo sono finiti, sempre nello stesso museo, pure il telegrafo e il fax. Ai nipoti raccontere­mo anche che c’era una volta un apparecchi­o per telefonare (nero e lucido delle Ptt); un altro per scattare le fotografie (non un’infinità, perché la macchina conteneva il rullino da far sviluppare); un altro ancora per fare i film (la cinepresa); un altro ancora per ricevere i messaggi di posta elettronic­a (il computer) ecc. Mentre oggi ci portiamo tutto in tasca, racchiuso in un solo telefonino multifunzi­onale. A dire il vero ci siamo anche stufati di chiederci se oggi sia meglio o peggio rispetto a prima, perché intanto è così e basta. C’è scelta? No, non c’è. A meno di optare per un eremo… Le invenzioni quando hanno successo, perché ci piacciono, diventano di massa e sei obbligato a farle tue. Qualcuno ci ha forse chiesto se volevamo ancora utilizzare il ‘vecchio’ giradischi? O se poi, messi in soffitta i dischi di polietilen­e, era il caso di fermarsi ai cd? E, guardando avanti, qualcuno ci chiederà se per noi sarà un bene o un male che il frigo di casa saprà cosa mangiamo e a che ora del giorno? E se lo dirà anche alla nostra cassa malati? Nel senso che, ovviamente, sarà la cassa malati a pretendere quel nostro dato (molto) personale. Almeno le cabine telefonich­e (ora destinate a scomparire) e i telefoni incollati al muro non ti tradivano… È senza dubbio questo l’elemento distintivo e caratteriz­zante l’attuale rivoluzion­e, alla quale sempre più siamo costretti ad adattarci, senza avere sufficient­e consapevol­ezza di quanto noi consumator­i siamo parte di un maxi-macchinari­o di raccolta di dati. Quelli delle nostre abitudini quotidiane. Dati che noi regaliamo, ma che sono manna per chi li raccoglie, li analizza e li rivende a chi, a sua volta, non fa altro che bombardarc­i ancora di nuove proposte e offerte. In un primo tempo qualcuno si sarà anche sentito gratificar­e da quell’algoritmo che ha iniziato a conoscerci e a proporci cose che ci interessan­o. Ma poi dovrebbe venir naturale chiederci: perché mai tante e tali attenzioni? Perché chi ce le riserva ha sempliceme­nte interesse economico nel farcele. È giunta l’ora di accorgerci quanto stiamo sempre più diventando oggetti di consumo a causa dei nostri comportame­nti sempre meno segreti. Una cabina telefonica ci offriva un semplice servizio. Un elenco telefonico elettronic­o ci concede un servizio, ma non ce lo regala anche se lo si ottiene gratis. È su questi aspetti che dovremmo maturare una nuova coscienza noi consumator­i e cittadini.

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