Vivere è un’altra cosa
Il consulente psicologico e mental coach Dirk de Sousa L’aumento del numero di persone che, nella nostra società, sono affette da sofferenza psicologica è sempre più evidente. L’autore cerca di fornire così una prova di quello che egli stesso chiama ‘real
Dirk de Sousa vive in Ticino da otto anni dove lavora come consulente psicologico nel suo studio di San Nazzaro. Mental coach della squadra nazionale svizzera di snowboard e freestyle, che accompagnerà alle Olimpiadi invernali del prossimo febbraio a Pyeongchang (Corea del Sud), ha scritto ‘Lo sguardo nel sé’, ovvero “il modo naturale di eliminare la sofferenza psicologica’. «Il mio lavoro non consiste nell’aiutare qualcuno a raggiungere un obiettivo – ci illustra i contenuti della sua professione –, più che altro io voglio togliere obiettivi, quello che hanno bisogno proprio gli atleti e oggi molte altre persone, perché sempre più identificati con degli obiettivi da creare in loro pressione e ansia». Basandosi sul pensiero di alcuni dei più grandi pensatori della storia, de Sousa guida il lettore «in un percorso di esperienza di sé che conduce al disvelamento della vera natura» di ciò che noi chiamiamo l’«Io» e che lui, invece, comunemente, chiama «il nostro Sé».
L’uomo d’oggi è sempre più messo sotto pressione dagli obiettivi che gli giungono soprattutto dall’esterno. Come ritrovare serenità?
Inconsciamente noi creiamo le nostre emozioni che servono, a loro volta, a raggiungere un obiettivo. Io lavoro sulle origini delle emozioni. Pensiamo alla paura che nella società è vista come qualcosa di negativo e contro la quale dobbiamo fare per forza qualcosa. È lì che inizia il problema, perché creiamo un circolo vizioso in quanto da una parte creiamo la paura e dall’altra ‘qualcosa’ che la deve combattere, controllare, e ciò crea più tensione e sofferenza. Cosa succede dunque? La nostra coscienza diventa sempre più occupata e questi pesi li carichiamo sulle nostre spalle ogni giorno.
Anche le paure possono dunque essere positive. Ciò ci porta all’invito non di respingerle ma di accoglierle?
Tutto va bene finché non dà sofferenza. Siamo noi soli a decidere di ‘togliere’ diversamente di ‘controllare’. E questo funziona con tutte le emozioni perché sono collegate a una interpretazione, un’idea che noi stessi prendiamo come verità.
Quali sono le maggiori sofferenze incarnate dall’uomo moderno?
A parte le paure, vi sono le identificazioni. Oggi tutti abbiamo un ruolo che dobbiamo rivestire: come uomo, come donna, come madre, come lavoratrice, collega, amico. E i livelli diventano sempre più alti. Il problema è che siamo talmente identificati con ciò che, se succede qualcosa che mette in dubbio il nostro ruolo, ‘perdiamo’ noi stessi. Chi siamo se non siamo quel ruolo? Così finiamo per creare delle emozioni necessarie a correggere la nostra immagine, l’immagine di noi stessi. E chi siamo alla fine se uno ci toglie quell’immagine? È questo un grave problema di oggi in quanto come cittadini, genitori, professionisti, eccetera, abbiamo tante immagini e tanti ruoli da vivere. Se qualcuno ‘toglie’ o mette in dubbio un ruolo si crea un vuoto perché viene a mancare la vera sostanza. Non è un caso che veniamo condizionati già da bambini, dove ci insegnano ad accumulare ruoli: tu devi risolvere i puzzle, i calcoli, e se riesci, bravo, e ora il prossimo, più difficile. Ciò ci porta a dover per forza raggiungere qualcosa per sentirci vivi, importanti. Un meccanismo sempre più forte. E se non abbiamo problemi, li creiamo anche di notte...
Nella società moderna molte sono le difficoltà nel riconoscere i propri limiti...
Constato sempre di più che le persone hanno un’idea di come devono essere e vogliono essere, ma nessuno mostra come sono davvero. Ed è un problema gigantesco! Piccolo esempio: oggi insegniamo alle bambine, future donne, a essere autonome e indipendenti dall’uomo; ma chi insegna loro a vivere una relazione insieme a un uomo? Questi condizionamenti creano una sofferenza enorme. Più abbiamo un’identificazione meno sappiamo chi siamo davvero, quale è la qualità della vita, il vivere, godere, stare insieme con una persona in un modo compartecipe, libero, aperto. Certo anche le regole servono nella vita, ma vivere è un’altra cosa! Condividere con un’altra persona significa anche non avere limiti. In amore non c’è un ‘io’ che amo, seppur in due, siamo una cosa sola, un’unica unità. E questo oggi fa paura a tante persone che temono: «Chi sono io se mi ‘perdo’ in questo relazione?».
Come si reagisce quando poi lo sguardo si volge, come lei invita a fare, al sé?
Lavoro volentieri con persone che soffrono già da anni, che prendono medicamenti, che hanno una diagnosi forte, ma vogliono lo stesso cambiare sé stesse. L’80% dei pazienti ‘normali’ desiderano ‘funzionare’, arrangiarsi con la vita, arrivando a provare meno sofferenza. Il cambiamento però funziona solo quando riusciamo ad avvertire le cose come sono realmente. Esempio è, ancora una volta, la paura: niente al mondo ci libera dalla paura, diceva Emile-Auguste Chartier, come il vero pericolo. Solo in questo modo riesco ad ‘ingrandire’ la mia coscienza. E come funziona il mio io? Come mi creo le mie emozioni? Non serve guardare indietro. Guardare alla nostra infanzia può essere interessante, può servire, ma lo sguardo, alla fine, deve rivolgersi al presente.
Studi evidenziano come lo stress psicologico sia uno dei problemi di salute pubblica più comuni. Ne sono vittime soprattutto gli uomini o le donne?
Onestamente le donne sono più aperte, l’uomo tende diversamente a rinchiudersi nell’immagine del proprio ego, trovano, o meglio cercano, altri modi di confrontarsi con le proprie sofferenze, cercano altri ‘cerotti’. Le donne hanno meno ‘barriere’ e quando avvertono paura dicono semplicemente ‘ho paura’. L’uomo si pre- senta soprattutto con sentimenti di rabbia; ciò copre la paura perché condizionata dal fatto di... non dover avere paura. La cultura è perciò anche condizionamento: tante coppie hanno problemi in quanto l’uomo latino non può che rivestire quel ruolo, che lo vuole forte e senza paura, che non deve chiedere scusa. L’effetto sono tensioni, problemi, che, invece, non dovrebbero più esserci.
Quali altre sofferenze avverte?
La depressione nevrotica, che viene dalle stesse radici. Se prendiamo due o tre depressivi nevrotici e li portiamo in Siria in una battaglia secondo lei cosa succede? La depressione gli passerà in un attimo. Nella nostra realtà vivono, infatti, in una sorta di estrema sicurezza, hanno tempo e spazio di girare intorno ai propri pensieri, identificazioni, immagini. Quando devono essere ‘presenti’ dimenticano di essere focalizzati sulla propria depressione, che ormai fa parte di loro.
Vi sono fasce d’età più esposte?
Sempre di più i giovani. Le aspettative dei genitori diventano sempre più alte quindi loro si sentono sempre più inferiori e questo crea paura, tensioni e depressioni. Non è popolare quello che dico ma quando un bambino nasce i genitori gli riversano addosso già aspettative altissime. L’amore nella nostra società non è gratuito! È sempre collegato a un comportamento: ‘Adesso hai già un anno, impegnati un po’ a camminare!’. E il figlio cosa pensa? ‘Così come sono non sono giusto, devo continuamente impegnarmi per essere accettato, per avere amore’.
Cosa è maggiormente preoccupante?
I disturbi dell’alimentazione condizionati dall’immagine. Si vive nella proiezione di noi stessi. Quando una madre allatta un bambino è lei che a un certo punto dice ‘adesso basta, devi aspettare’. Lo sviluppo naturale viene così interrotto, c’è un altro che decide per te! Come può allora un bambino crescere in uno sviluppo naturale? Abbiamo mille sistemi di controllo dell’alimentazione, diete, calcoliamo le calorie, prodotti low fat, alla sera non si mangia più, scambiamo una dieta con un’altra continuamente e ciò non può aiutare, mai! È sempre qualcosa di artificiale e alla fine non impariamo a vivere il nostro corpo: ho fame e allora mangio, adesso non ho fame e perché allora mangio? Voglio compensare qualcosa? Non impariamo più a prendere coscienza di noi stessi.
Da mental coach come si approccia agli atleti?
Nello stesso modo. Uno studio inglese ha analizzato 600 atleti a livello internazionale: più del 50% mostra segni depressivi. Perché soffrono di questa pressione? C’è sempre qualcuno che decide per loro: allenatori, società, sponsor. E ogni pensiero, tensione mentale limita la loro libertà e la loro coscienza anziché essere aperti per sfruttare il potenziale in modo ottimale. Non dormono, hanno problemi con l’autostima e provano una rigidità tale da portare a risultati negativi. ‘Io sono il migliore atleta quando sono libero, e godo, e faccio quello che posso, indipendentemente dal risultato’. A me piace la parola tedesca di successo, Erfolg, quasi un risultato, quello che succede quando sono al 100% lì.
Rispetto al passato l’atleta deve fare i conti più che con la prestanza fisica con la propria testa e motivazione?
Sì, e sempre di più, perché a livello fisico sono così vicini che l’80-90% lo decide la testa e ciò può essere positivo o negativo. ‘Giocano’ infatti con la propria vita e può essere pericoloso. Riuscire in uno spettacolare trick ci porta a provare un’euforia che non serve e anzi ci porta nel riprovare a incidenti o rotture, in quanto ciò limita la lucidità. Servono esercizi per ‘liberarsi’, prima di ogni gara, dei propri pensieri, tensioni, aspettative; in gruppo, dove ci si rende conto che tutti hanno gli stessi problemi, e in singole sedute, perché ciascuno ha il suo ‘cantiere’.