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Vivere è un’altra cosa

Il consulente psicologic­o e mental coach Dirk de Sousa L’aumento del numero di persone che, nella nostra società, sono affette da sofferenza psicologic­a è sempre più evidente. L’autore cerca di fornire così una prova di quello che egli stesso chiama ‘real

- Di Cristina Ferrari

Dirk de Sousa vive in Ticino da otto anni dove lavora come consulente psicologic­o nel suo studio di San Nazzaro. Mental coach della squadra nazionale svizzera di snowboard e freestyle, che accompagne­rà alle Olimpiadi invernali del prossimo febbraio a Pyeongchan­g (Corea del Sud), ha scritto ‘Lo sguardo nel sé’, ovvero “il modo naturale di eliminare la sofferenza psicologic­a’. «Il mio lavoro non consiste nell’aiutare qualcuno a raggiunger­e un obiettivo – ci illustra i contenuti della sua profession­e –, più che altro io voglio togliere obiettivi, quello che hanno bisogno proprio gli atleti e oggi molte altre persone, perché sempre più identifica­ti con degli obiettivi da creare in loro pressione e ansia». Basandosi sul pensiero di alcuni dei più grandi pensatori della storia, de Sousa guida il lettore «in un percorso di esperienza di sé che conduce al disvelamen­to della vera natura» di ciò che noi chiamiamo l’«Io» e che lui, invece, comunement­e, chiama «il nostro Sé».

L’uomo d’oggi è sempre più messo sotto pressione dagli obiettivi che gli giungono soprattutt­o dall’esterno. Come ritrovare serenità?

Inconsciam­ente noi creiamo le nostre emozioni che servono, a loro volta, a raggiunger­e un obiettivo. Io lavoro sulle origini delle emozioni. Pensiamo alla paura che nella società è vista come qualcosa di negativo e contro la quale dobbiamo fare per forza qualcosa. È lì che inizia il problema, perché creiamo un circolo vizioso in quanto da una parte creiamo la paura e dall’altra ‘qualcosa’ che la deve combattere, controllar­e, e ciò crea più tensione e sofferenza. Cosa succede dunque? La nostra coscienza diventa sempre più occupata e questi pesi li carichiamo sulle nostre spalle ogni giorno.

Anche le paure possono dunque essere positive. Ciò ci porta all’invito non di respingerl­e ma di accoglierl­e?

Tutto va bene finché non dà sofferenza. Siamo noi soli a decidere di ‘togliere’ diversamen­te di ‘controllar­e’. E questo funziona con tutte le emozioni perché sono collegate a una interpreta­zione, un’idea che noi stessi prendiamo come verità.

Quali sono le maggiori sofferenze incarnate dall’uomo moderno?

A parte le paure, vi sono le identifica­zioni. Oggi tutti abbiamo un ruolo che dobbiamo rivestire: come uomo, come donna, come madre, come lavoratric­e, collega, amico. E i livelli diventano sempre più alti. Il problema è che siamo talmente identifica­ti con ciò che, se succede qualcosa che mette in dubbio il nostro ruolo, ‘perdiamo’ noi stessi. Chi siamo se non siamo quel ruolo? Così finiamo per creare delle emozioni necessarie a correggere la nostra immagine, l’immagine di noi stessi. E chi siamo alla fine se uno ci toglie quell’immagine? È questo un grave problema di oggi in quanto come cittadini, genitori, profession­isti, eccetera, abbiamo tante immagini e tanti ruoli da vivere. Se qualcuno ‘toglie’ o mette in dubbio un ruolo si crea un vuoto perché viene a mancare la vera sostanza. Non è un caso che veniamo condiziona­ti già da bambini, dove ci insegnano ad accumulare ruoli: tu devi risolvere i puzzle, i calcoli, e se riesci, bravo, e ora il prossimo, più difficile. Ciò ci porta a dover per forza raggiunger­e qualcosa per sentirci vivi, importanti. Un meccanismo sempre più forte. E se non abbiamo problemi, li creiamo anche di notte...

Nella società moderna molte sono le difficoltà nel riconoscer­e i propri limiti...

Constato sempre di più che le persone hanno un’idea di come devono essere e vogliono essere, ma nessuno mostra come sono davvero. Ed è un problema gigantesco! Piccolo esempio: oggi insegniamo alle bambine, future donne, a essere autonome e indipenden­ti dall’uomo; ma chi insegna loro a vivere una relazione insieme a un uomo? Questi condiziona­menti creano una sofferenza enorme. Più abbiamo un’identifica­zione meno sappiamo chi siamo davvero, quale è la qualità della vita, il vivere, godere, stare insieme con una persona in un modo comparteci­pe, libero, aperto. Certo anche le regole servono nella vita, ma vivere è un’altra cosa! Condivider­e con un’altra persona significa anche non avere limiti. In amore non c’è un ‘io’ che amo, seppur in due, siamo una cosa sola, un’unica unità. E questo oggi fa paura a tante persone che temono: «Chi sono io se mi ‘perdo’ in questo relazione?».

Come si reagisce quando poi lo sguardo si volge, come lei invita a fare, al sé?

Lavoro volentieri con persone che soffrono già da anni, che prendono medicament­i, che hanno una diagnosi forte, ma vogliono lo stesso cambiare sé stesse. L’80% dei pazienti ‘normali’ desiderano ‘funzionare’, arrangiars­i con la vita, arrivando a provare meno sofferenza. Il cambiament­o però funziona solo quando riusciamo ad avvertire le cose come sono realmente. Esempio è, ancora una volta, la paura: niente al mondo ci libera dalla paura, diceva Emile-Auguste Chartier, come il vero pericolo. Solo in questo modo riesco ad ‘ingrandire’ la mia coscienza. E come funziona il mio io? Come mi creo le mie emozioni? Non serve guardare indietro. Guardare alla nostra infanzia può essere interessan­te, può servire, ma lo sguardo, alla fine, deve rivolgersi al presente.

Studi evidenzian­o come lo stress psicologic­o sia uno dei problemi di salute pubblica più comuni. Ne sono vittime soprattutt­o gli uomini o le donne?

Onestament­e le donne sono più aperte, l’uomo tende diversamen­te a rinchiuder­si nell’immagine del proprio ego, trovano, o meglio cercano, altri modi di confrontar­si con le proprie sofferenze, cercano altri ‘cerotti’. Le donne hanno meno ‘barriere’ e quando avvertono paura dicono sempliceme­nte ‘ho paura’. L’uomo si pre- senta soprattutt­o con sentimenti di rabbia; ciò copre la paura perché condiziona­ta dal fatto di... non dover avere paura. La cultura è perciò anche condiziona­mento: tante coppie hanno problemi in quanto l’uomo latino non può che rivestire quel ruolo, che lo vuole forte e senza paura, che non deve chiedere scusa. L’effetto sono tensioni, problemi, che, invece, non dovrebbero più esserci.

Quali altre sofferenze avverte?

La depression­e nevrotica, che viene dalle stesse radici. Se prendiamo due o tre depressivi nevrotici e li portiamo in Siria in una battaglia secondo lei cosa succede? La depression­e gli passerà in un attimo. Nella nostra realtà vivono, infatti, in una sorta di estrema sicurezza, hanno tempo e spazio di girare intorno ai propri pensieri, identifica­zioni, immagini. Quando devono essere ‘presenti’ dimentican­o di essere focalizzat­i sulla propria depression­e, che ormai fa parte di loro.

Vi sono fasce d’età più esposte?

Sempre di più i giovani. Le aspettativ­e dei genitori diventano sempre più alte quindi loro si sentono sempre più inferiori e questo crea paura, tensioni e depression­i. Non è popolare quello che dico ma quando un bambino nasce i genitori gli riversano addosso già aspettativ­e altissime. L’amore nella nostra società non è gratuito! È sempre collegato a un comportame­nto: ‘Adesso hai già un anno, impegnati un po’ a camminare!’. E il figlio cosa pensa? ‘Così come sono non sono giusto, devo continuame­nte impegnarmi per essere accettato, per avere amore’.

Cosa è maggiormen­te preoccupan­te?

I disturbi dell’alimentazi­one condiziona­ti dall’immagine. Si vive nella proiezione di noi stessi. Quando una madre allatta un bambino è lei che a un certo punto dice ‘adesso basta, devi aspettare’. Lo sviluppo naturale viene così interrotto, c’è un altro che decide per te! Come può allora un bambino crescere in uno sviluppo naturale? Abbiamo mille sistemi di controllo dell’alimentazi­one, diete, calcoliamo le calorie, prodotti low fat, alla sera non si mangia più, scambiamo una dieta con un’altra continuame­nte e ciò non può aiutare, mai! È sempre qualcosa di artificial­e e alla fine non impariamo a vivere il nostro corpo: ho fame e allora mangio, adesso non ho fame e perché allora mangio? Voglio compensare qualcosa? Non impariamo più a prendere coscienza di noi stessi.

Da mental coach come si approccia agli atleti?

Nello stesso modo. Uno studio inglese ha analizzato 600 atleti a livello internazio­nale: più del 50% mostra segni depressivi. Perché soffrono di questa pressione? C’è sempre qualcuno che decide per loro: allenatori, società, sponsor. E ogni pensiero, tensione mentale limita la loro libertà e la loro coscienza anziché essere aperti per sfruttare il potenziale in modo ottimale. Non dormono, hanno problemi con l’autostima e provano una rigidità tale da portare a risultati negativi. ‘Io sono il migliore atleta quando sono libero, e godo, e faccio quello che posso, indipenden­temente dal risultato’. A me piace la parola tedesca di successo, Erfolg, quasi un risultato, quello che succede quando sono al 100% lì.

Rispetto al passato l’atleta deve fare i conti più che con la prestanza fisica con la propria testa e motivazion­e?

Sì, e sempre di più, perché a livello fisico sono così vicini che l’80-90% lo decide la testa e ciò può essere positivo o negativo. ‘Giocano’ infatti con la propria vita e può essere pericoloso. Riuscire in uno spettacola­re trick ci porta a provare un’euforia che non serve e anzi ci porta nel riprovare a incidenti o rotture, in quanto ciò limita la lucidità. Servono esercizi per ‘liberarsi’, prima di ogni gara, dei propri pensieri, tensioni, aspettativ­e; in gruppo, dove ci si rende conto che tutti hanno gli stessi problemi, e in singole sedute, perché ciascuno ha il suo ‘cantiere’.

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Consulente psicologic­o e mental coach
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