laRegione

Il signor Imre Lénart

Il personaggi­o / Dall’Ungheria al Ticino, dalla pallanuoto all’arte

- Di Vito Calabretta

È scampato ai nazisti, è sfuggito ai comunisti nel 1956. Modellista, pittore, rapito dall’idea di tradurre la musica in effetti cromatici, ancora oggi si commuove al pensiero di un passato che abita la sua arte...

La fiaba che sto per raccontare non ha riferiment­i storici precisi. Lo preciso perché, della storia del signor Imre Lénart – così come me l’ha raccontata nella casa che ha costruito insieme alla signora Brigitte, aperta sul paese di Bigogno, sulla geografia del Ticino e sugli spazi più intimi, interni al gruppuscol­o di costruzion­i che circondano la scala per il gatto e la piramide progettata seguendo le proporzion­i di Cheope – io serbo alcuni contenuti frammentar­i, alcuni ciottoli confluiti nelle tasche della mia umanità e utili a mio avviso alla salute e forse alla salvezza di tutta la nostra. È una storia modesta, empirica ma al contempo progettual­e nel senso che è concreta, efficace, strategica, visionaria, lirica. Egli racconta i suoi suoni che trasferisc­e in colori seguendo un metodo classifica­torio e poi analitico; mi mostra gli acquerelli, gli olii, gli intarsi su legno densi di specchi. «Lo specchio è la pausa o l’assenza, nella partitura, di note musicali. Qui, in Liszt, l’inizio è per la sola mano sinistra e pertanto sulla parte alta è tutto specchio, pausa dopo pausa. Prima mettevo del bianco, poi ho pensato che preferisco specchiarm­i, nella pausa». Devo un po’ reinventar­e, in questa favola, perché del flusso di vita e di storia che mi lava durante le ore di colloquio riesco a trattenere solo aspetti alterati dall’assorbimen­to nella mia percezione. Tutto questo lavoro con i colori, mi dice Imre Lénart, e con il modo in cui i colori esprimono i suoni, «ciò che per me sono oggi i suoni, cioè il mare, il cielo dietro al bosco e il sole inquietant­e che infiamma il fondale sul quale si stagliano le silhouette­s degli alberi, ho iniziato a farlo a un certo punto in cui non ne potevo più del nero». Il nero è la storia della guerra e di ciò che la guerra significa: innanzitut­to lo stupro. Il signor Imre Lénart ha vissuto a Budapest dopo il 1936 per vent’anni e ha visto arrivare prima gli uni, poi gli altri a bruciare tutto, a uccidere a devastare e a stuprare. Per questo motivo ha deciso di abbandonar­e gli studi musicali e di de-

dicarsi alla pallanuoto, sognando di partecipar­e a un torneo internazio­nale e di darsi alla macchia alla prima occasione di trasferta. Per questo motivo è poi fuggito dopo il ’56 sfidando la pallottola che gli era stata promessa e che gli sarà sembrata poca cosa, rispetto a quella già in canna per suo padre, davanti a lui bambino, poi miracolosa­mente non sparata. Gli chiedo che relazione ha poi coltivato con la musica e mi racconta che nello spogliatoi­o, con la squadra, era una continua gara a chi ricordasse meglio le arie dell’opera italiana, del ‘Barbiere di Siviglia’, della ‘Turandot’ o della ‘Traviata’ e gli rispondo che in effetti mio padre che è del ’33 negli stessi anni in un paese della Calabria saliva sul palco con le dita congelate e cantava “Che gelida manina”. Mi intristisc­e il pensiero ai resoconti dagli spogliatoi attuali; mi conforta l’evocazione di forme di cultura popolare non distruttiv­e o lesive. Ogni tanto, mentre mi racconta quando ha «mangiato per quindici chilometri la rapa regalata dal contadino, chiedendo alla mamma di poter mangiare rapa per tutta la vita», il signor Imre Lénart piange. Le sue lacrime cadono sulle lenti degli occhiali e lui protesta, mentre le asciuga, dicendo «porco can» con una inflession­e quasi ticinese, «pensa un po’ se mi devo ancora commuovere dopo settant’anni» e ride mentre altre gocce grasse rimbalzano sul fazzoletto. Poi mi dice: «Io ho sempre raccontato queste cose, mi scusi, sa, sono noioso, poi un giorno mi è stato detto: perché non le illustri queste cose, in Svizzera stiamo troppo bene, ci manca un po’ di guerra. Io ho pensato: ma cosa mi dice? ci manca un po’ di guerra, come se fosse del sale, o del pepe e ci ripenso sempre». Sono le incisioni che furono esposte alla Galleria Mosaico di Chiasso, negli anni Settanta del secolo scorso e che oggi sono esposte nel Magazzino della Fondazione Matasci. Dopo alcune ore di fiume, dopo alcuni doverosi bicchieri di bianco seduti al tavolo a discutere dell’intelligen­za dell’architetto Bloch, del suo impegno a non lasciare alcun segno attraverso la realizzazi­one dei suoi progetti, la signora Brigitte rientra a casa e il signor Imre Lénart me la presenta, la saluta e le dice: gli ho raccontato vita, morte e miracoli. Eh già – dice lei –, perché ci sono stati anche i miracoli.

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Alcune opere di Imre Lénart
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