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Una vita a scatti

Ercole Colombo, fotografo

- di Paolo Spalluto

Ercole Colombo è il fotografo della Formula Uno per eccellenza. Da 47 anni segue il campionato e ha realizzato milioni di scatti. Solare, arguto e profondame­nte brianzolo nella solidità e nella semplicità, regala sempre un sorriso e una battuta. Rispettato e amato da tutti, spesso confidente dei campioni, autore di libri e mostre sulle corse.

Ercole Colombo, quando decide di diventare un fotografo?

Mio padre era un appassiona­to fotografo e si dilettava a dipingere con gli acquarelli le foto bianco e nero, visto che il colore ancora non esisteva. La macchina fotografic­a era per me un oggetto mitico, che si poteva toccare solo con autorizzaz­ione. Noi abitavamo a fianco dell’Autodromo nazionale di Monza e così mio padre mi ha pure trasmesso la malattia per i motori. Mi ricordo Ascari, Fangio. Sono entrato la prima volta nel 1950, per poi essere barelliere dal 1961 pur di stare in pista, vicino alla postazione dei commissari, pronto a intervenir­e in caso di incidente. E così poi iniziai a scattare fotografie di qualsiasi cosa si muovesse sul tracciato, che fossero auto o moto.

Come diventa un profession­ista?

Nel 1970 il mitico dottor Montagna dell’Autodromo mi concesse il primo accredito che chiedevo già da tanto tempo. A quei tempi era una cosa seria. Era molto rigido, a me aveva concesso prima un pass per la Formula 3. Poi dovevo portargli cinque fotografie per dimostrare che lavoravo, e che lo facevo bene. Hanno cominciato a comperare le mie immagini, così la mia storia ha avuto inizio. Alla fine del Mondiale 2017 per mia fortuna non è ancora terminata.

La sua fotografia è da tutti considerat­a storia di 47 anni di Formula 1. Le propongo dei nomi, lei ci racconta gli uomini e i piloti. La usiamo come una Polaroid, insomma, per degli scatti di vita attorno ai motori. Cominciamo da Jochen Rindt.

Il grande shock del mio debutto, perché muore proprio a Monza nel 1970. Uno spettatore qualsiasi aveva ripreso la morte del pilota e io avevo visto lo scatto nel laboratori­o dove di solito sviluppavo i miei rullini: una foto durissima, la gamba spezzata. Ho i brividi ancora oggi, come allora. Un vero campione, uno veloce, forte. Basti dire che tuttora è l’unico campione del mondo postumo.

Clay Regazzoni.

La prima parola è “amico”. Ci siamo divertiti in giro per il mondo come matti, facevamo jogging assieme, si andava a ballare. Clay aveva il più bel sorriso della F1 di allora. Era magnetico, pieno e vero. Le foto con lui riuscivano sempre. In pista era il campione che abbiamo amato tutti.

Gilles Villeneuve.

Un ragazzo incredibil­e, appassiona­to di fotografia, curioso. Frugava sempre nelle mie borse per vedere se avessi obiettivi nuovi, gli piaceva armeggiare con la fotocamera. Come pilota ha vinto poco, se penso a quello che diede sempre in pista. Andava sempre al 110 per cento. Sono passati 35 anni dalla sua morte, eppure la sua memoria e la sua fama restano intatte. In una recente mostra che gli ho dedicato mi ha colpito vedere ragazzi che ne sapevano, di lui. Gilles è come i Beatles, è oltre il tempo.

Ayrton Senna.

Un fenomeno di velocità. Sul giro secco trovava una concentraz­ione e una velocità micidiali. In gara commetteva errori, come altri piloti, del resto. Ricordo la sua sofferenza nell’annata in cui fu messo il limite ai consumi. Lui partiva come un razzo, e poi negli ultimi giri restava a secco come un pivello. Proprio quando Prost, meno fantasioso, sapeva invece gestire la situazione al meglio. Per me è nell’Olimpo tra i giganti.

Fernando Alonso.

Pilota strano e complicato, per me fortissimo nel corpo a corpo, molto strategico in pista. Quando si trova a lottare con un avversario, diventa difficile per gli altri gestirlo se ha la macchina giusta. È fortissimo nel sorpasso, capace di staccate al limite che non ti aspetti. Secondo me non sempre veloce sul giro secco. Campione del mondo, dannatamen­te sfortunato con la Ferrari se si pensa al 2012, quando prima della pausa estiva era avanti di molti punti ma poi perse il Mondiale per tante ragioni. Non gli perdono (in senso buono) la mancata staccata ad Abu Dhabi per cercare di vincere il Mondiale. Avrebbe dovuto lottare.

Michael Schumacher.

Il prototipo della serietà, dopo Lauda, tra tutti quelli che ho visto in 47 anni. Concentraz­ione e dedizione totali per la sua profession­e. Ha raccolto molto, è stato capace sia in Benetton sia in Ferrari di vincere sette Mondiali, anche se a Maranello ha dovuto aspettare tanto. Ha però saputo prendere in mano la squadra, viverci bene e farla vincere con lui. Straordina­rio nel 2002 quando vinse con larghissim­o anticipo.

Ora ci deve svelare un segreto: passeggian­do nel paddock non si trova nessuno che abbia una cattiva parola al suo indirizzo. Solo sorrisi e ammirazion­e, dopo 47 anni. Come si fa, in un ambiente come la F1?

Bisogna lavorare molto seriamente, sempre, mai mollare, educatamen­te, il vero trucco è avere rispetto e ho sempre cercato di aiutare tutti nell’ambiente.

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47 anni di attività

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