Caccia e fiction
La caccia da sempre genera grandi emozioni, sull’una e l’altra sponda. E così anche la Rsi si è avvicinata al tema, con uno sceneggiato. Niente di male. Anzi. Se non che, o per vizio di superficialità o per mancanza di un alfabeto venatorio minimo, gli esiti sono stati disastrosi. Non è infatti trapelato nulla della magia e dell’incanto che lega l’uomo alla natura, alla montagna, attraverso la caccia. Nulla di ciò che la stragrande maggioranza dei cacciatori vive e sente e di come di conseguenza agisce nel rispetto e nell’amore per il proprio territorio. Sarebbe stato bello che l’autore di quegli sceneggiati fosse andato oltre il fiume di stereotipi di parte e avesse cercato di approfondire e capire cosa rappresenta la caccia per coloro che la vivono davvero. Non credo sarebbe stato chiedere troppo. Anzi, mi pongo la domanda del perché di un’immagine così rozza e falsata della caccia e del cacciatore. E non trovo risposta. Mi chiedo se colui che ha realizzato queste “fiction” abbia mai incontrato un vero cacciatore prima di scrivere la sceneggiatura. Nel nostro paese la caccia è legata alla montagna. Il cacciatore trascorre l’anno (e non il mese di caccia) osservando la vita e le abitudini degli animali selvatici, ama il suo territorio e gli animali che osserva e ne ha cura, insieme ad altri. La montagna ha insegnato alle sue genti la resistenza, la prudenza, la gestione dell’esistenza in sito. L’attività contadina, forestale e venatoria ne tracciano la cultura, la consapevolezza nella prossimità e nella cura dell’ambiente. Avviciniamoci dunque a questa cultura nella sua essenza e nei suoi valori, che accomunano e non distinguono guardiacaccia da cacciatori. Ascoltiamo chi conosce. Rispettiamo e curiamo il “giardino di casa” nei media non meno che in montagna.
Moreno Bianchi, Mesocco