Musica: stessa fine delle Storie?
La musica (di Spotify) rischia di fare la fine delle Storie (di Snapchat)? Proprio adesso, a pochi mesi dalla quotazione in Borsa della società svedese prevista per la prossima primavera? Per rispondere, prima di tutto, i dati, che parlano sempre chiaro. Quelli pubblicati la scorsa settimana da Daily Beast raccontano una storia. Un po’ triste, ma molto importante per (provare a) capire dove sta andando il mercato digitale: il 64 per cento degli utenti dell’applicazione fondata da Evan Spiegel nel settembre del 2011 è più incline a scambiarsi messaggi che a pubblicare Storie. Solo il 20 per cento consulta tutti i giorni la sezione Discover, in cui trovano spazio i contenuti ad hoc di testate partner come Buzzfeed o Vogue, e un misero 11 per cento naviga quotidianamente la mappa per visualizzare la posizione degli altri iscritti, funzione introdotta la scorsa estate. In sostanza, i documenti riservati entrati in possesso del sito americano e relativi al periodo compreso fra aprile e settembre dello scorso anno sentenziano come Snapchat sia passata dall’essere l’applicazione preferita dai giovanissimi — e, in quanto tale, la scommessa del futuro — al diventare uno strumento di messaggistica o poco più. Le azioni della casa madre Snap ne risentono e sono scivolate dai 17 dollari della Ipo ai poco più di 14 odierni.
Facebook responsabile della débâcle
Il responsabile della débâcle ha un nome: Facebook. Il colosso di Mark Zuckerberg ha clonato il formato degli aggiornamenti della durata di 24 ore sul suo intero ecosistema. In particolare, su Instagram lo scorso maggio, dove le Storie hanno fatto breccia nei polpastrelli di 300 milioni di persone. Con il suo impressionante bacino di utenza Facebook ha bruciato un’iniziativa nuova e innovativa, capace di ritagliarsi uno spazio degno di nota, quantomeno in un primo momento, e di arrivare ad avere una capitalizzazione da 17 miliardi di dollari. Ecco perché gli accordi a cavallo di fine anno con Universal Music e Sony/Atv Music Publishing, in vista di quello imminente con Warner, portano a chiedersi se il gigante a stelle e strisce sia in procinto di fagocitare (anche) la realtà svedese fondata nel 2006.
Il 64 per cento degli utenti dell’applicazione fondata da Evan Spiegel nel settembre del 2011 è più incline a scambiarsi messaggi che a pubblicare Storie
Il momento per domandarselo è quello giusto, essendo in calendario in aprile la quotazione della soluzione per ascoltare musica digitale gratuitamente, accettando le interruzioni pubblicitarie, o pagando un abbonamento. Le modalità per lo sbarco in Borsa comunicate alla Sec forniscono qualche dettaglio interessante: Spotify venderà le azioni direttamente agli investitori al New York Stock Exchange, senza intermediari e senza, di fatto, emissione di alcun nuovo titolo e raccolta di denaro. Non una Ipo (Initial public offering), ma una Dpo (Direct public offering). Il nodo per la società valutata attualmente 20 miliardi di dollari (da Gp Bullhound) è quello dei conti: nel 2016 ha registrato entrate per circa 3,3 miliardi di dollari, in crescita del 52 per cento rispetto all’anno precedente, ma il rosso è cresciuto a 600 milioni e il costo delle licenze musicali continua a pesare. Intanto è riuscita a sanare il debito da un miliardo accumulato con i fondi Tpg e Dragoneer Investment Group grazie all’ingresso della cinese Tencent. In questo senso, continua il parallelo con Snap(chat), su cui il colosso di Shenzhen ha scommesso lo scorso novembre acquistando il 12 per cento delle azioni.
I destini si dividono
I destini di Snap e Spotify, per ora, si dividono se si analizza la natura degli accordi di Menlo Park con le etichette. Al momento, il social network si sta muovendo con il progressivo acquisto di diritti discografici ed editoriali per garantire agli utenti l’utilizzo delle melodie nei video che postano sulle loro bacheche senza rischiare la rimozione per aver infranto il copyright. Le cifre precise non sono state rese note, ma si parla di centinaia di milioni di dollari di investimenti per consolidare un mercato, quello delle sponsorizzazioni nei filmati pubblicati sui social, del valore di 4 miliardi all’anno nel 2017.
Formato live: Facebook con Watch
Secondo Cisco, inoltre, nel giro dei prossimi tre anni l’82 per cento del traffico internet sarà video. In quest’ottica, oltre a spingere la pubblicazione da parte degli internauti e a promuovere il formato live, Facebook ha lanciato lo scorso agosto negli Stati Uniti Watch, dove trovano spazio produzioni ad hoc. L’analista di Morgan Stanley Brian Nowak ipotizza che la sezione arriverà a valere 565 milioni nel 2018. «Il potenziale di Facebook in ambito musicale è notevole», conferma Enzo Mazza, amministratore delegato della Federazione dell’industria musicale italiana (Fimi). «Oltre ai video degli utenti ci sono le dirette (a cui Mark Zuckerberg ha confermato di dare la priorità nel News Feed con la modifica dell’algoritmo di giovedì scorso, ndr) per fare performance, si possono sfruttare i profili degli artisti, c’è Watch», prosegue.
Nel mirino Youtube
E spiega come nel mirino in questa fase «ci sia soprattutto Youtube», che a sua volta potrebbe andare a dar fastidio agli svedesi con l’integrazione fra l’abbonamento di Red e Google Play Music. Proprio i dati Fimi relativi al portale di usergenerated-content di proprietà di Mountain View fanno capire il potenziale per le (grosse) piattaforme video (in grado di accordarsi con le etichette per ospitare musica legalmente): l’85% dei visitatori italiani di Youtube sfrutta il sito per l’ascolto di canzoni. Mazza sottolinea come la conversione dell’attività degli utenti in ricavi per gli artisti sia ancora un tasto dolente: «Youtube genera più o meno un dollaro ogni mille stream dove Spotify ne genera sette (Value gap è il termine tecnico, ndr). E gli abbonati alla piattaforma svedese sono ancora troppo pochi nei nostri confini». «Solo negli ultimi 12 mesi Youtube ha pagato un miliardo di dollari grazie alle pubblicità e questo
numero sta crescendo di anno in anno in virtù degli accordi che abbiamo con la stragrande maggioranza delle etichette», replica a L’Economia un portavoce dell’azienda americana. Riconoscendo come ormai Youtube sia stato inquadrato normativamente, il numero uno di Fimi auspica comunque una stretta «con la riforma della direttiva europea sul copyright in termini di obblighi più stringenti di rimozione di contenuti illegali». A occuparsi della rimozione o della richiesta di monetizzazione è la tecnologia Content Id che, secondo i dati comunicati da Youtube, ha portato nelle casse dei proprietari dei diritti due miliardi di dollari negli ultimi cinque anni. Completano il quadro dei giganti con le fauci aperte verso Spotify Amazon, con Amazon Music Unlimited, e Apple, con Apple Music. Gli utenti premiano lo streaming di Daniel Ek, che ha circa il 40 per cento del mercato degli ascolti digitali su abbonamento: 70 milioni di sottoscriventi paganti contro i 30 milioni della casa della Mela, avvantaggiata dalla relazione diretta fra l’app e i più di 700 milioni di iPhone in circolazione in tutto il mondo. Amazon non dà numeri ufficiali, ma dovrebbe tendere alla ventina di milioni. Conta sulla popolarità del suo ecommerce e sull’offerta riservata ai clienti Prime, che oltre a godere di consegne più rapide hanno accesso al catalogo dei video. Come detto, Facebook e Youtube giocano per ora una partita diversa, ma le loro — e degli altri due — spalle larghe (economiche) non vanno perse di vista. Snapchat ne sa qualcosa.