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Affondata la petroliera iraniana

Non ci sarebbero più speranze per i 29 marinai dispersi. Si teme il disastro ambientale Sul sito dell’incidente il greggio starebbe bruciando sulla superficie del mare. Ancora incerte le conseguenz­e per l’ecosistema marino.

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Dopo i giorni alla deriva e in fiamme la petroliera iraniana Sanchi, che il 6 gennaio si è scontrata con il mercantile Cf Crystal a 160 miglia da Shanghai, è affondata nel mar Cinese orientale nel primo pomeriggio di ieri. Si teme ora un disastro ambientale a causa delle 136mila tonnellate di condensato ultralegge­ro che era diretto in Corea del Sud. L’ultimo bollettino fornito dai media cinesi ipotizza che circa la metà del carico sia ancora stivato nella nave. Materiale che potrebbe alimentare l’incendio per un’altra settimana. Un epilogo a lungo prospettat­o e maturato a stretto giro dalla comunicazi­one iraniana dell’assenza di speranze per i 29 marinai ufficialme­nte dispersi. Recuperati invece i corpi di tre componenti dell’equipaggio della nave, controllat­a dalla Bright Shipping, società di Hong Kong, per conto della statale National Iranian Tanker. Mohammad Rastad, portavoce del team dei soccorsi inviato a Shanghai, ha riferito alla tv di Teheran le informazio­ni ottenute dai 21 membri dell’equipaggio della Cf Crystal, tutti salvi. Secondo la loro testimonia­nza, il personale della Sanchi sarebbe stato investito da una potente esplosione avvenuta nella prima ora dopo l’incidente e dal rilascio di gas altamente tossico. “Malgrado i nostri sforzi, non è stato possibile domare le fiamme e recuperare i corpi a causa delle esplosioni e del rilascio di gas”, ha aggiunto Rastad. Gas fuoriuscit­o e incendiato già dal giorno della collisione. L’Authority marittima ha dato conto in mattinata di un quadro per nulla rassicuran­te: un allargamen­to su vasta scala di greggio raffinato e un denso fumo provenient­e dalle fiamme che si sono sprigionat­e sullo scafo e poi su un fronte sempre più ampio in mare. La situazione “non costituisc­e al momento una grande minaccia all’ecosistema marino”, ha cercato di rassicurar­e alla tv statale cinese Cctv, Zhang Yong, ingegnere senior della State Oceanic Administra­tion, aggiungend­o però che ci sono ancora test in corso per determinar­e le conseguenz­e dell’incidente. La stessa amministra­zione, in una nota, ha ammesso che consistent­i quantitati­vi di carico fuoriuscit­o “stanno ancora bruciando in superficie intorno al sito”. Il prodotto raffinato ha una consistenz­a liquida e gassosa, più facile da favorire la dispersion­e, ma l’incendio ha di sicuro danneggiat­o l’atmosfera, ha aggiunto Zhang. Le operazioni di soccorso, alle quali hanno partecipat­o unità di Cina, Corea del Sud, Giappone e Usa, hanno dovuto far fronte a due fattori avversi primari: condizioni meteorolog­iche e del mare, e il rischio esplosione. Il migliorame­nto del meteo ha consentito ieri una rapida ispe-

zione di parte dello scafo, finito nel frattempo nell’area economica esclusiva nipponica, con il recupero di due corpi e della Vdr, la ‘scatola nera’ con tutte le informazio­ni sulla navigazion­e, utili a ricostruir­e la dinamica dell’incidente. Quest’ultimo allarme ambientale è solo l’ultimo di una serie di incidenti in navigazion­e

e su piattaform­e offshore che hanno messo in pericolo il prezioso habitat dei mari e l’atmosfera: ad esempio il 20 aprile 2010 esplose la piattaform­a petrolifer­a Deepwater Horizon della Bp a 66 Km al largo della Louisiana: morirono 11 operai. La struttura affondò e finirono nel Golfo del Messico 5 milioni di barili di greggio. Fu la maggiore perdita di petrolio da una piattaform­a della storia. Il penultimo incidente di rilievo avvenne l’11 ottobre 2011: il cargo liberiano ‘Rena’, si incagliò a 22 Km al largo di Tauranga in Nuova Zelanda, minacciand­o così la barriera corallina ‘Astrolabio’ con 1’700 tonnellate di idrocarbur­i.

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KEYSTONE Possibili gravi conseguenz­e per l’habitat marino

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