laRegione

Aspettando la mamma

- di Claudio Lo Russo

C’è un bimbo che ha attraversa­to l’Europa in un sacco portato a spalla da suo padre. Ha vissuto due anni a Giubiasco, dove con suo fratello è stato adottato dalla comunità. Qualche mese fa è stato espulso, direzione Germania. Un gruppo di mamme ticinesi ha però deciso di non abbandonar­lo. Questo bimbo infatti non vede sua madre, bloccata in Iraq, da quattro anni. E fra pochi giorni dovrà essere operato, la speranza è che possa finalmente camminare: lui ci crede...

C’era una volta... No, c’è oggi un bimbo che ogni sera, prima di addormenta­rsi, chiede “quando arriva la mamma?”. Situazione nota a chi ha dei bambini: lei esce e dopo un tot inizia, incalzante, il ritornello, “quando arriva la mamma?”. Lui, Ahmad, il bimbo di questa storia, la sua mamma la aspetta da quattro anni. Da quando gli eventi hanno indotto la sua famiglia a separarsi e suo padre, Kameran, lo ha accomodato in un sacco e se lo è caricato in spalla, per poi attraversa­re con un altro figlio (Falamaz) la Turchia, il mare, la Grecia, i Balcani e l’Austria, transitand­o dalla Germania prima di giungere in Svizzera. Ahmad, infatti, è affetto da una malformazi­one del midollo spinale, la “spina bifida”, per cui non può camminare. Quando è partito dall’Iraq era il 2014. Aveva tre anni. A volte le storie delle persone ci sfiorano, transitano nel nostro perimetro vitale, ci chiamano. Possiamo lasciarle andare oppure fermarle, farle entrare nostra storia. Questo hanno scelto un gruppo di donne ticinesi, quattro mamme e due insegnanti fra Giubiasco e Camorino – sei persone qualunque con una vita, un lavoro, una famiglia – che, a turno, temporanea­mente e per quanto possibile, cercano di riempire quel vuoto nella quotidiani­tà di Ahmad e di suo fratello. Loro sono le “mamme per Ahmad”. Può dare un senso di vertigine, come sprofondar­e nella Storia che ogni giorno si consuma attorno a noi, pensare che quella degli Osman era una famiglia del tutto normale. Una famiglia del Nord della Siria, regione di Aleppo: padre tassista, madre casalinga, quattro figli: Rassoul, Falamaz, Leila e Ahmad, nato nel 2011, l’anno delle Primavere arabe e dell’inizio della guerra civile. Quando il conflitto ha travolto il loro villaggio, gli Osman si sono rifugiati in Iraq, dove per un paio d’anni Kameran ha lavorato come camionista. In seguito, per i siriani è diventato sempre più difficile trovare lavoro. Allora, la decisione: il viaggio verso l’Europa, nella speranza di trovare anche delle cure adeguate per Ahmad. I soldi per tutti però non bastano e la famiglia si divide. Dopo la marcia attraverso l’Est europeo, nei boschi della Germania il fermo di polizia, prima di approdare a Basilea e infine a Giubiasco. Qui, per due anni, Ahmad, Falamaz e Kameran hanno trovato una vita “normale”, per quanto possa esserlo con il pensiero del resto della famiglia in Iraq e un padre camionista costretto a reinventar­si nel ruolo di“mamma”. La scuola e il calcio per Falamaz, l’asilo e le cure del dottor Ramelli all’ospedale San Giovanni per Ahmad. So- prattutto, l’accoglienz­a di una comunità in cui si sono integrati. «L’altro ieri, mentre raccogliev­amo le firme a Giubiasco, il macellaio piangeva: non sapeva che erano dovuti partire e continuava a chiedersi dove fosse quel bambino», ci dice Stefano Ferrari, regista Rsi, che con moglie e figlia nei due anni ticinesi si è prestato come “famiglia di appoggio” per gli Osman. Ancora oggi, Ahmad e Falamaz fra loro parlano in italiano. In Ticino, purtroppo, li ha raggiunti un decreto d’espulsione, poi ratificato dal Tribunale amministra­tivo federale. Gli Osman rappresent­avano un “caso Dublino”, per cui è stato disposto il loro ricollocam­ento in Germania, dove erano stati registrati. Dopo due anni a Giubiasco, il 30 marzo 2017 la polizia elvetica li ha scortati nel Baden-Württember­g. Oggi si trovano nel paesino di Oberteurin­gen, in un prefabbric­ato in cui vivono una trentina di immigrati. Insomma, la Convenzion­e di Dublino ha prevalso su quella Onu sui diritti del fanciullo, anche nel caso di un bambino con handicap che qui, a Bellinzona, si stava rimettendo in piedi. Kameran non si è più opposto all’espulsione in virtù di una promessa e di una speranza, rintraccia­te nella sentenza del Tribunale amministra­tivo. La speranza era quella del ricongiung­imento familiare, possibile solo in Germania, la promessa che le cure di Ahmad sarebbero proseguite: «Spettava alla Svizzera accertarsi che queste garanzie divenisser­o realtà», dice Ferrari. Eppure, dopo sei mesi di abbandono, solo grazie alla caparbietà delle “mamme per Ahmad” il bambino è stato visitato, le cure sono riprese e il 13 marzo a Monaco Ahmad verrà sottoposto a un’operazione all’anca, nella speranza che possa iniziare a camminare. «Purtroppo, sei mesi possono essere determinan­ti in negativo», aggiunge Ferrari, che, per la rubrica ‘Storie’, su Ahmad ha deciso di fare un film. Titolo: ‘Ma quando arriva la mamma?’. Del resto anche lui, oggi, è ancora in contatto quotidiano con gli Osman.

Quando ha deciso che questa storia doveva diventare un film?

Ho iniziato ad accumulare materiale che definirei amatoriale, ero curatore educativo dei bambini e quindi filmavo per avere un ricordo nostro, familiare. La molla è scattata quando ho visto attivarsi questo gruppo di mamme, io per pudore non avrei mai fatto un film a partire dal mio ruolo in questa vicenda. Ma quando le ho viste pronte a partire per la loro missione, allora mi sono detto che sì, era una storia da raccontare. Siccome questi bimbi si sono fatti volere un bene enorme, queste donne hanno deciso di “sostituire” quella mamma che ancora non hanno vicino a loro. E dopo l’espulsione, si sono dette “noi non li abbandonia­mo”. Per cui hanno iniziato i loro viaggi, portando generi di prima necessità, aiutando il papà nelle cure ad Ahmad e picchiando i pugni sul tavolo delle autorità tedesche affinché venisse visitato da un medico. E quando finalmente Ahmad è potuto entrare nella clinica di Ravensburg, l’équipe medica e il sistema sanitario si sono rivelati ottimi.

Qual è oggi per loro la speranza di ricongiung­imento con la madre?

Loro sono partiti con questa speranza negli occhi, dopo che le autorità svizzere hanno spiegato che il ricongiung­imento era possibile solo in Germania, dove sono stati registrati all’arrivo in Europa. Di sera pregano e guardano la luna, immaginand­o che anche lei la stia guardando, e Ahmad continua a chiedere “ma quando arriva?”, solo che questa mamma non arriva mai. La speranza si sta aprendo in questi giorni: con i nuovi ricongiung­imenti disposti dal governo tedesco e un po’ con la nostra raccolta firme.

Dove sta per il regista l’equilibrio fra sguardo esterno e coinvolgim­ento personale?

Il mio coinvolgim­ento non è mai negato. Guardando il film si sentirà che la camera pulsa, perché ci sono mia figlia e la mia famiglia. Come ex curatore educativo mi sento però sollevato da ogni incarico, perché sono queste mamme ad aver preso in mano il testimone, ognuna con le sue competenze: è splendido.

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Ahmad a Basilea, nel riquadro Stefano Ferrari. A destra, con il fratello e il papà (in Ticino e sotto in Germania), al centro la mamma, Khadija
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