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Perché tagliarci la lingua?

- Di Aldo Bertagni

La forza della voce. E della parola. Che è poi il nostro essere umani. La forza della lingua che ci fa sentire comunità e ci dona appartenen­za. Scriveva Tzvetan Todorov: “La lingua non è uno strumento neutrale, è impregnata di pensieri, azioni, giudizi trasmessi dal passato; essa delinea la realtà in una maniera particolar­e e infonde in noi una specifica visione del mondo”. Pensiamoci un attimo. La lingua ci racconta la realtà in un certo modo e non in un altro e dunque ci permette di distinguer­e cosa ci è davvero utile e cosa meno. E questa comprensio­ne, ci dice il filosofo francese d’origine bulgara scomparso all’inizio del 2017, ci aiuta (o ci orienta) nel giudizio sulle cose del mondo. Quando impariamo a parlare, leggere e scrivere la nostra lingua, diventiamo di fatto membri della comunità di appartenen­za. Ecco perché conoscere la propria lingua significa conoscere la propria storia e immaginare il futuro. Chi può fornirci gli strumenti per arrivare a tanto? L’educazione scolastica, beninteso, ma anche tutto ciò che è “servizio pubblico”, ovvero una prestazion­e pagata da tutti per essere a disposizio­ne di tutti, in ugual misura e portata. Che certo non impedisce ad altri, operatori privati, di fare altrettant­o; di partecipar­e alla crescita della conoscenza individual­e e collettiva, ma senza obbligo di sorta. Il servizio pubblico, al contrario, riceve un mandato – affidato dagli eletti democratic­amente – che deve rispettare. Vincolante. Se quanto sin qui detto è vero, lo è ancor di più in una realtà confederal­e qual è quella svizzera. Lo è per le minoranze, bisognose di una voce forte e autorevole per essere ascoltata là dove le maggioranz­e decidono. Questo e non altro è stata ed è oggi la Radiotelev­isione svizzera di lingua italiana. Di lingua, appunto, che vuol dire molto, tanto di più di quanto riusciamo ad ascoltare e vedere ogni giorno alla radio o alla television­e. È identità, è appartenen­za, è “pensieri, azioni, giudizi trasmessi dal passato” appunto. Detta altrimenti, senza una voce importante e pubblica non vi è più garanzia di autonomia, di progetto, di riconoscim­ento. Di più. Se perdiamo la voce che ci rappresent­a (perché questo e non altro è la Rsi), che ci racconta, restiamo anche senza la possibilit­à di criticare e giudicare la rappresent­anza e il racconto. Quanti di noi hanno piacere di criticare la Rsi e sono al contempo consapevol­i che lo possono fare per il solo fatto che questa esiste? E ha un prezzo. Perché essere parte, membri di una comunità, senza pagare pegno è certo ambizione ingenua. Si paga in altro modo e oltretutto senza consapevol­ezza. Dunque difendere il servizio pubblico radiotelev­isivo significa, a ben vedere, lottare per difendere la nostra stessa identità. Meglio, il nostro processo identitari­o che si plasma quotidiana­mente. Se spegniamo quella voce – perché se passa l’iniziativa ‘No Billag’ di questo si tratta e non di altro – ridimensio­niamo il ruolo della nostra lingua e dunque di noi stessi. D’accordo, magari va rimodulata, accordata ai tempi e alle nuove esigenze tecnologic­he. Forse è una voce un po’ afona, ma da qui al silenzio…

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