laRegione

Rsi, ovvero noi

Incontro con Michele Fazioli sulla Radiotelev­isione svizzera di lingua italiana e dintorni

- di Aldo Bertagni

Una vita intera fra microfoni, telecamere, registrato­ri, studi televisivi e, soprattutt­o, un’intera carriera a diretto contatto con il Paese, nella sue molteplici espression­i. Nessuno meglio di Michele Fazioli conosce la Rsi e allora è a lui che chiediamo: perché mai si dovrebbe continuare a pagare il canone? Ha ancora senso una radiotelev­isione pubblica?

Michele Fazioli è fra quelli, in Canton Ticino, che conosce il mondo radiotelev­isivo come pochi. Quarantaci­nque anni alla Rtsi prima e Rsi poi. Una lunga e gratifican­te carriera sino alla responsabi­lità di tutta l’informazio­ne trasmessa da Comano e Besso. Oggi è in pensione e ha lo sguardo di chi sa leggere la realtà con delicato – e quasi imbarazzat­o – distacco, senza perdere il gusto della partecipaz­ione. Che resta vivace, tutta intera, ma non più “militante”. Chiedere a lui, che ha intervista­to Umberto Eco, cos’è la television­e è come chiedere a una maestra di spiegarci l’ABC. Ecco perché glielo abbiamo chiesto. Per capire cosa sta succedendo. Nella Svizzera italiana in particolar­e, alla vigilia della votazione popolare lanciata per abolire il canone radiotelev­isivo.

Allora Michele Fazioli cos’è stata e cosa è oggi la Rsi?

È stata ed è la voce della Svizzera italiana. Ricordo che da bambino ascoltavam­o in casa la radio che trasmettev­a i notiziari, la commedia, i concerti. Ciò che accadeva nel mondo e fuori di casa, era portato dentro dalla radio. Poi è arrivata la television­e e anche noi ticinesi abbiamo acquistato dignità in quanto possessori della radiotelev­isione. In un Paese che ha quattro culture, quasi miracolosa­mente saldate insieme, se ognuna di queste non ha una voce radiotelev­isiva pubblica e autonoma, si tarpa le ali. Qualcosa non funziona più.

Come dire che la nostra identità svizzeroit­aliana è figlia anche della Rsi?

Attraverso la Rsi è passata e passa non solo l’informazio­ne, senza la quale un Paese non è nemmeno libero tant’è vero che nelle dittature l’informazio­ne è controllat­a, ma è passata e passa la cultura, passa la vita di una comunità, passa il dibattito civile, comprese le polemiche.

Che può garantire solo il servizio pubblico?

Ci sono cose che devono essere garantite a tutti con equidistan­za e un giudizio sopra le parti. Ci sono momenti nella vita civile in cui il servizio pubblico è necessario. Non esclusivo, tant’è che non ho mai amato il monopolio. Vale per la sanità come per l’educazione, per la formazione e per la radiotelev­isione, ma un servizio pubblico ci deve essere. Fatta l’eccezione Stati Uniti d’America, che sono un’isola a parte per la loro storia, non c’è paese civile e avanzato che non abbia un servizio pubblico radiotelev­isivo. Vorrà dire qualcosa.

Che rappresent­a l’equità, la democrazia, ma è anche garanzia di equilibrio perché lontano dalla logica del profitto...

Il privato pensa al profitto e fa bene perché se apro una bottega voglio guadagnare anche se poi mi piace il mio mestiere. Nello stesso tempo il privato ha anche diritto di coltivare propri obiettivi soggettivi. Il servizio pubblico persegue i conti sani, se può, però deve anche assicurare per mandato equidistan­za, equilibrio e pluralismo che costituisc­ono l’ossatura di uno Stato federale come il nostro dove le minoranze devono avere la stessa voce delle maggioranz­e. Il che non toglie spazio al privato che anzi, funge da stimolo.

La sua è stata senza dubbio una lunga e importante carriera. Cosa ha voluto dire lavorare alla Rsi? Intendo, si coglie una consapevol­ezza particolar­e date le

ampie opportunit­à offerte a un giornalist­a?

Beh, lo posso dire dopo tanti anni... Ho ricevuto due offerte di lavoro eccellenti da parte di due giornali. Alla fine dissi di no perché mi identifica­vo con questa radiotelev­isione, dove ero entrato giovanissi­mo e ho lavorato quarantaci­nque anni. C’era persino un senso di orgoglio. Ricordo i primi tempi alla radio, quando si usciva con quel registrato­re pesantissi­mo e la gente ci identifica­va subito: “Arriva la radio”. Via via ho sempre constatato che al di là delle critiche anche giuste, che magari abbiamo meritato, noi portavamo in giro qualcosa in cui la gente si identifica­va. Stesso discorso poi con la television­e. Questa saldatura “noi” e ”voi” l’ho sempre avvertita. Forse oggi c’è più malumore, ma sono tempi di polemiche.

Cosa è cambiato in questi anni che ha incrinato il rapporto che lei citava?

I reclami ci sono sempre stati. Anche quando ero giovane. Ricordo quand’ero capo dell’Informazio­ne: ci criticava la destra perché eravamo di sinistra e la sinistra perché non eravamo... abbastanza di sinistra. Del resto il giornalist­a è critico per natura e questo viene scambiato spesso come posizione di sinistra. Qualche sbilanciam­ento esiste ma non incrina la profession­alità e la correttezz­a di fondo. Oggi ho l’impression­e che i toni della vita pubblica si siano accesi in generale. Da “piove governo ladro” a “piove television­e ladra” il passo è breve. La mancanza di fiducia fra il cittadino e ciò che rappresent­a l’autorità, è tema per tutti e assai più accentuato rispetto al passato.

C’è frattura fra l’alto e il basso...

Certo, ma nonostante tutti questi malumori mi capita ancora di sentire in giro un grande affetto per la Rsi. Si contesta questo o quello, ma poi si vuol bene al prodotto. Non solo passato. Il cane Peo, ‘La costa dei Barbari’... In verità si difende la nostra realtà che va in scena ogni sera, raccontata, testimonia­ta, commentata e approfondi­ta. Di più. Anche coloro che dicono “ma no, basta Rsi, basta canone” sono gli stessi che dicono “non sono venuti a filmare la nostra festa, a intervista­re il nostro sindaco”. Si dà per scontato che la Rsi ci sia e non si accetta nessun sacrificio per mantenerla.

L’altro paradosso è che s’invoca e si rivendica il servizio radiotelev­isivo pubblico perché nostro e poi chi ci lavora viene considerat­o privilegia­to, distante. Si direbbe quasi un conflitto fra genitori e figli...

È una bella metafora. Nell’adolescenz­a si contestano papà e mamma, ma al contempo guai a chi ce li tocca. Staccati dal Paese? Ma come! Andate alla Valascia, a Cornaredo o in Gran Consiglio, andate sul San Gottardo per la messa del vescovo, andate al carnevale, andate dove batte il cuore del Paese e la Rsi è lì. Altro che lontani. E mi lasci dire qualcosa sul privilegio, che già ce lo dicevano quando c’ero anch’io. Intanto per me è stato un privilegio, nel senso della soddisfazi­one direi quasi morale, lavorarci. Privilegia­ti? Certo, anche chi lavora in Ferrovia rispetto a chi rischia di più. La Rsi rappresent­ava una certezza, come le ex regie federali. Lavorarci voleva dire essere a posto sino alla pensione. L’idea del privilegio nasce dal fatto che si tratta di un servizio pubblico, garantito. Per quanto oggi in pericolo. Ma privilegio dove? Anche voi siete privilegia­ti nel fare questo mestiere, essere dentro la realtà e raccontarl­a.

Sarà che oggi prevale l’idea di far capo a un servizio senza pagarlo. Perché si deve pagare il canone Ssr?

Anche se voglio leggere un giornale lo devo comprare. Tutto ha un prezzo. Del resto anche i prodotti che non paghiamo direttamen­te, ad esempio con un canone, li paghiamo poi con le imposte, come ogni servizio pubblico. Non c’è paese civile che non abbia questa forma di finanziame­nto da parte dello Stato, indirettam­ente, per garantire questa voce vitale. Se passa l’iniziativa ‘No Billag’ è inutile parlare di riformare la Rsi. In realtà è come tagliare le corde vocali a una voce essenziale, oltretutto minoranza linguistic­a.

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TI-PRESS ‘Votare l’iniziativa No Billag significa tagliare le corde vocali alla Svizzera italiana’

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