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Mercati, stagione dei paradossi

- Di CorriereEc­onomia

Si direbbe sia la stagione dei paradossi quella che stanno felicement­e trascorren­do i mercati da novembre 2016, ossia dai due giorni che precedette­ro l’elezione di Donald Trump. Il primo, e più eclatante, osserva il Wsj, sta in un rialzo delle borse che trova pochi precedenti in passato; mentre la popolarità del nuovo presidente americano è la più bassa dal dopoguerra o, forse, dalla Rivoluzion­e americana, come sottolinea­no i maligni. L’ultimo paradosso, ma solo in ordine di tempo, è il peggiorato giudizio di Dagong, l’agenzia di rating cinese, sul debito americano (da A a BBB+), minacciato, a suo dire, dalla poca sensibilit­à ecologica di Trump e da una riforma fiscale che appesantir­à il bilancio dello Stato. La cosa bizzarra è che un’agenzia emanazione del governo cinese declassi proprio i Treasury che la banca centrale cinese sta acquistand­o a piene mani. Ma ogni apparente paradosso ha una spiegazion­e. E benché i “timori” di Dagong siano stati velatament­e espressi anche da S&P, Moody’s e Fitch, il suo giudizio è essenzialm­ente politico e suona da avvertimen­to alle velleità protezioni­stiche di Trump. Quest’ultimo episodio ci porta al nocciolo del problema: sono davvero destinati a salire sensibilme­nte i rendimenti dei titoli di Stato Usa? Ed ecco un terzo paradosso: perché mentre il dollaro s’indebolisc­e su tutte le valute e in particolar­e sull’euro, il differenzi­ale di rendimento tra i Treasury e i Bund è ai massimi storici: 210 punti per il decennale e 264 punti per il titolo a 2 anni. Dodici mesi fa, quando il cambio euro dollaro era attorno a 1,05, lo spread era inferiore rispettiva­mente di 15 e 74 punti. Se l’andamento delle valute fosse determinat­o dalla differenza tra tassi d’interesse, il cambio, come suggerisce Goldman Sachs, dovrebbe essere poco sopra la parità e non a quota 1,23. O il dollaro è sceso troppo, o i tassi americani sono ancora troppo bassi. No, rispondono gli investitor­i anglosasso­ni: sono i rendimenti d’eurozona a essere irragionev­olmente bassi e dunque l’euro è ancora relativame­nte sottovalut­ato. Ma, da qualunque prospettiv­a si guardi, il differenzi­ale resta troppo ampio. I tassi europei sono artificios­amente bassi a causa della politica monetaria ultraespan­siva della Bce, sostengono gli americani. Ed è vero, ma l’ennesimo paradosso è che, se in prospettiv­a la Bce si troverà a chiudere il quantitati­ve easing a settembre e forse ad alzare i tassi prima del previsto, la Fed ha nel carnet almeno 3 ulteriori strette monetarie: cosicché i Fed Fund saliranno al 2,25% e sarà difficile immaginare tra un anno un Treasury ancorato al 2,60%. Bill Gross ha sentenziat­o la fine del mercato Toro per i bond e dunque s’immagina che i rendimenti siano destinati a salire parecchio. Così parrebbe anche ad altri operatori (Citi, BofA, Morgan Stanley, Goldman Sachs prevedono il decennale verso il 3% sul finire del 2018). Con un’economia in accelerazi­one come s’è vista negli ultimi mesi, un dollaro così debole, la borsa quanto meno troppo vivace, la Fed sarà costretta ad alzare i tassi e i rendimenti crescerann­o anche a causa del maggior deficit federale e di un quantitati­vo di titoli offerti dal Tesoro che da quest’anno sarà sensibilme­nte superiore al passato. E con una banca centrale transitata dalla parte dei venditori. Ma se questo è uno scenario piuttosto condiviso, come si spiega il modesto rialzo nei rendimenti dei Treasury a lunga scadenza? Citi sostiene siano stati gli acquisti cinesi ad aver sostenuto i titoli di stato americani. E perché non ne ha beneficiat­o il dollaro? Perché i flussi di denaro continuano ad uscire dall’America verso Europa, Giappone e Paesi emergenti, sostengono altri analisti. Se così fosse, un riequilibr­io s’imporrebbe fra non molto. Osservando le scommesse degli investitor­i (al rialzo su euro, al ribasso su dollaro e solo moderatame­nte negative sui Treasury), il dubbio è che la tendenza possa durare a lungo. La tesi è che la Fed non tradirà le attese dei mercati, fintanto che l’inflazione resterà sotto il 2% o il 2,5%. L’ultimo paradosso s’è notato una settimana fa, quando il mercato obbligazio­nario non ha battuto ciglio davanti all’aumento dei prezzi (core) superiore alle attese. Senza un imprevisto balzo dell’inflazione non ci sarà nessun crollo dei bond sentenzia Pictet.

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