laRegione

Formarli per integrarli

- Di Simonetta Caratti

Kiflom, 19 anni, ha fatto stage come falegname, idraulico, elettricis­ta, tutto pur di non stare a casa a girarsi i pollici. Oggi l’eritreo fa un pretirocin­io per accedere alla formazione di aiuto infermiere. Tenzin, 24 anni, è scappata dal Tibet e sta facendo un apprendist­ato come addetta alla ristorazio­ne. Ahmad, 18 anni, afghano, ama il cricket e vorrebbe diventare chef: «Sto imparando l’italiano. Vedo un futuro per me in Svizzera, vorrei fare il cuoco anche se il mio sogno era costruire case». Feruz, 19 anni, eritrea, adora i dolci e vorrebbe lavorare in pasticceri­a: «Non al banco perché non mi sento sicura con l’italiano, ma in panetteria a fare cornetti». Vi raccontiam­o, in due puntate, storie di giovani fuggiti da regimi e guerre che si ritrovano insieme in classe. L’unico punto comune è il loro statuto di rifugiati. Vivono soli in appartamen­ti in Ticino, senza una rete familiare e con scarse conoscenze di italiano, ma hanno una chance d’oro: stanno facendo un percorso di formazione verso un apprendist­ato grazie a iniziative nate dalla Clinica Luganese Moncucco, da Sos Ticino, dalla ditta Regazzi. Piccoli numeri, che potrebbero crescere. Lo scopo è integrarli e renderli finanziari­amente autonomi grazie a una qualifica di base. Una cosa è certa, chi viene da Siria, Afghanista­n o Eritrea rischia di rimanere a lungo in Svizzera. Li lasciamo depositati come pacchi in appartamen­ti di periferia a fare muffa e vivere di assistenza? O investiamo nella loro formazione e cerchiamo di inserirli soprattutt­o in quei settori – come sanità, agricoltur­a o ristorazio­ne – dove l’economia fatica a trovare manodopera locale? Dopo anni di discussion­i, la Svizzera si sta dando una mossa per formare rifugiati e chi è ammesso provvisori­amente. L’economia sta aprendo qualche porta: a Zurigo vengono indirizzat­i nell’edilizia, a Friborgo nell’agricoltur­a, in Ticino si provano più strade: ristorazio­ne, sanità, logistica, agricoltur­a e meccanica di produzione. E dall’autunno di quest’anno la Confederaz­ione finanzierà mille posti (150 in Ticino) di pretirocin­io sull’arco di 4 anni. Il primo scoglio è l’apprendime­nto della lingua. Spesso non basta un corso di italiano alla Migros, perché fuori dalla scuola frequentan­o solo connaziona­li. In più, gran parte dei rifugiati assegnati al Ticino ha un livello di scolarizza­zione molto basso, non sa come studiare. Quindi diventa importante immergerli in un contesto lavorativo dove si è obbligati a parlare italiano, esercitand­o ciò che si studia in classe. Un anno di pre-tirocinio talvolta non basta per farli accedere a un apprendist­ato. Altro punto dolente è il mercato del lavoro, c’è chi dice perché formare i rifugiati quando i nostri figli sono disoccupat­i o in assistenza? È legittimo chiedersel­o, ma si cerca di dare priorità a quei settori dove per chi vuole il lavoro non manca. Sarà una questione di equilibrio o equilibris­mo. Se fossero figli nostri, accolti in altri Paesi, non vorremmo che fossero istruiti e messi nella condizione di guadagnars­i da vivere? I giovani sono giovani e sono il futuro, risorse da valorizzar­e e non da lasciare parcheggia­ti come roba vecchia e senza valore. Anche perché non sappiamo che cosa una mente frustrata e senza prospettiv­e può iniziare a partorire, quando chi è sradicato ha troppo tempo per pensare e rimuginare.

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