laRegione

Una legge contro la Storia

- Di Jacopo Scarinci

Ad Auschwitz, pardon, Oswiecim ci arrivai a bordo di un bus più che sgangherat­o preso a Cracovia. Estate 2006, quella dei 18 anni, di uno zaino, un amico e un giro per l’Europa senza niente di prenotato, né programmat­o. C’era un controllor­e, perché bontà nostra da Varsavia a Cracovia prendemmo un treno. Sghanghera­to come il bus, più anni 80 di un ritratto del generale Jaruzelski. Ecco, quel controllor­e mi multò. Sbagliato biglietto. D’altronde, chi lo capisce il polacco. Glielo dissi scherzando, nacque una conversazi­one anche simpatica. Chiese dove fossimo diretti. “Auschwitz”, risposi.

Segue dalla Prima “Noi diciamo Oswiecim”, replicò. Lo disse con fierezza, quasi distacco. Come per ribadire che quella parola ‘tedesca’ non era loro, non la sentivano. Come per dire che c’era una violazione di territorio e lingua polacca, nel dire che la loro bella terra fosse stata teatro dell’orrore. “Bad years”, sospirò. Anni brutti. Sì, lo sappiamo, ahinoi. Però non era solo questo. Il controllor­e – mi pento sempre di non avergli chiesto il nome, ma avevo anche una multa da pagare con gli ultimi zloty rimasti in tasca – in cinque minuti mi spiegò perché quelli siano stati ‘bad years’. Perché da lì iniziò tutto. Le responsabi­lità polacche nella Shoah, nel collaboraz­ionismo, nel dolore portarono alla pretesa lavata di coscienza del realismo socialista. Già nel 1949 Wislawa Szymborska, futura premio Nobel per la letteratur­a, si vide rifiutare una raccolta di poesie perché esse non ri- spondevano ai valori socialisti. E fu così che iniziarono le pressioni sugli intellettu­ali, vennero costruiti i casermoni grigi nelle immediate periferie delle città, venne piantato un chiodo rosso per scacciare il chiodo nero. La scelta del governo di ultradestr­a polacco di punire con tre anni di carcere, per legge, chi parla di responsabi­lità polacche nell’Olocausto è una scelta che va contro il senso della storia. Soprattutt­o in un Paese che negli ultimi secoli è stato lacerato e raramente ha avuto la possibilit­à di rifiorire come nazione libera e indipenden­te, senza spartizion­i come tra ’700 e ’800, senza regimi o collaboraz­ionismi. Anche col nazismo, beninteso. Il 10 luglio 1941, ad esempio, ci fu il pogrom di Jedwabne. Gli abitanti non ebrei rastrellar­ono, fomentati dalle Ss, decine e decine di ebrei. Prima li picchiaron­o sulla pubblica piazza, poi li uccisero e gettarono in una fossa comune. Non fu l’unico caso di collaboraz­ionismo, visto che esempi come questo portarono a creare una Resistenza al nazismo attiva e battaglier­a come poche. Se la storia e il suo svolgiment­o hanno impedito alla Polonia di essere nazione a tutti gli effetti, oggi questa storia deve essere nascosta? La storia non va mai negata. Insegna cosa è stato sbagliato, perché non si ripeta. Ma bisogna compiere lo sforzo di ascoltarla, sennò è un esercizio inutile. Il vento in poppa dei nazionalis­mi nell’Est Europa mostra, impietoso, come chi oggi nota qua e là somiglianz­e con la fine della Repubblica di Weimar qualche ragione ce l’ha.

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