La vera rivoluzione: sociale e inclusiva
‘I giganti del web? Non fanno bene all’economia. Facebook, Google, Amazon sono diventati enormi, grandi come uno Stato. A volte di più. Ora, oltre al problema del controllo dei dati e della privacy, non è detto che in termini di nuovi posti di lavoro e di
Bisogna interrogarsi sui monopoli, dunque, anche nel cyber spazio. L’opinione è di Yossi Vardi, padre del miracolo start up di Israele, imprenditore in proprio e venture capitalist dal fiuto eccezionale. Fu lui a credere, nel 1996, in
Mirabilis, all’epoca la più classica delle start up: finanziò quattro giovani israeliani (uno era sua figlio Arik) appena congedati dal servizio militare. In un garage crearono Icq, il primo istant messaging del web (300 milioni di profili registrati) e progenitore di WhatsApp (1,3 miliardi di utenti, dal 2014 una provincia dell’Impero di Mark Zuckerberg). Dopo appena 19 mesi, America OnLine rilevò Icq per la bellezza di 407 milioni di dollari. «Un caso di scuola» dice Vardi, 75 anni, che L’Economia del ‘Corriere della Sera’ ha incontrato a CyberTech Tel Aviv, alla fine di gennaio, la maggiore fiera della sicurezza informatica fuori dagli Usa. Ma le start up non rappresentano soltanto una garanzia di innovazione, sono anche una risorsa necessaria nella creazione di posti di lavoro. «Basta vedere cosa è successo negli Stati Uniti dopo la Grande Recessione del 2007 – spiega Vardi –. I posti di lavoro sono tornati ai livelli ante-crisi solo otto anni dopo. E solo grazie all’apporto della società con meno di due anni di vita, creatrici nette di impiego. Le compagnie mature sono meno brave a creare posti di lavoro».
Il numero delle start up declina
E non basta: «Diventa difficile anche fare ricerca di nuovi prodotti, di nuove iniziative nei social media o nell’e-commerce perché lo spazio è saturato e le risorse dragate dai Big Data».
‘Il cambiamento epocale sarà quello degli smartphone. Tra pochi anni, tutti gli abitanti della Terra ne avranno uno. La vera rivoluzione sarà sociale e inclusiva.’
Infatti il numero delle start up negli Usa declina dal 2014. E persino in Israele, la Start-Up Nation per eccellenza, dal nome di una famosa analisi del 2009, il numero delle nuove società hi-tech è sceso per la prima volta. Si tratta comunque di più di 600 nascite, più dell’intera Europa messa insieme e record mondiale per numero di abitanti. Israele ritiene di avere gli anticorpi per far fronte al relativo calo di vocazioni: «Lo sanno tutti – dice Vardi, che in patria chiamano angelo del venture capital, avendo dato i natali, finora, a 90 imprese tecnologiche – che abbiamo un sistema educativo che funziona, tecnologie militari e di intelligence all’avanguardia che si riversano nella società civile, uno Stato che finanzia la ricerca come nessun altro al mondo», (4,3% del Pil).
Benzina e scintilla
Tutto ciò è la benzina. Ma la scintilla dov’è? Vardi, che è uomo di spirito, ne individua tre. «La prima è quella che io chiamo il fattore mamma ebrea, che è un fatto di mentalità, non genetica o di genere. In altre parti del mondo, le famiglie – spiega – sognano per i loro figli un lavoro sicuro, stabile. Qui tutti i ragazzi si sentono fare questo discorso:
‘Figlio mio, con tutto quello che abbiamo fatto per te, dovresti portarci almeno un premio Nobel, solo uno! Che sarà mai...’. Insomma, lavoriamo tutta la vita per dimostrare di non essere degli idioti. E guadagnare molti soldi è un buon inizio». Un altro fattore è quello sociale: «Israele è uno Stato piccolo, 8 milioni di abitanti. Abbiamo capito subito che per andare avanti dovevamo darci una mano». Sotto questo aspetto, la leva militare obbligatoria (3 anni per i maschi e 2 per le femmine) insegna il lavoro in squadra e la responsabilità. «E poi c’è l’eredità culturale dei kibbutz, le piccole comunità formate da giovani immigrati che hanno plasmato questo Paese». Ultimo, la libertà di fallire: «Se un’impresa va male si ricomincia. Non è un dramma». In più, Israele ha dimostrato che i parchi tecnologici dove convivono ricerca accademica, centri di sviluppo delle multinazionali e persino unità di prestigio del mondo militare e dell’intelligence rappresentano un volano di innovazione e quindi di crescita: come nell’oasi hi-tech di BeerSheva, il CyberSpark. O come nel settore della cybersicurezza o dell’automotive, di cui Israele è leader mondiale senza aver mai costruito una macchina: da Waze, l’app di navigazione Gps comprata da Google, o MobilEye, che sviluppa software per la guida autonoma, finita nel mirino di Intel (15 miliardi di dollari di acquisizione). «E comunque questo è un momento storico, da cogliere al volo: la possibilità di inventare qualcosa di grande ora è sterminata». Vardi pensa ai costi della tecnologia, precipitati: «L’innovazione è diventata democratica. Quindici anni fa per creare qualcosa di importante dovevi avere l’appoggio di un governo e di una grande azienda. Adesso basta un’idea per trovare un finanziatore».
Il fattore cultura
Più che dal Darkweb e hacker, Vardi è preoccupato dalla morte della lettura: «L’abbassamento della soglia di attenzione è drammatico. Da ragazzo leggevo tre libri al giorno, ora non so chi riesca a non farsi distrarre per più di tre minuti consecutivi da chat e app da consultare». E la blockchain? Cambierà davvero Internet? Il guru è scettico: «Il cambiamento epocale sarà quello degli smartphone. Tra pochi anni, tutti gli abitanti della Terra ne avranno uno. E potranno connettersi l’un l’altro anche dal più sperduto dei villaggi, donne incluse, senza problemi di etnia, religione o famiglia. La vera rivoluzione sarà sociale e inclusiva».