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La città divisa

Mohammad Shelechi ha studiato pianoforte e direzione d’orchestra al Conservato­rio di Lugano, un anno fa è tornato a Teheran. Lo scorso gennaio ha organizzat­o un concerto per gli 80 anni di Loris Tjeknavori­an, il più noto compositor­e iraniano, in cui sue m

- di Uta Ruscher Traduzione di Gabriella Soldini

Teheran ha allungato le sue “ombre” ancora prima che partissimo. Infatti non siamo stati in grado di pagare i biglietti aerei, che avevamo riservato a Milano presso la Iran Travel Agency. La parola Iran, collegata con un conto bancario di Milano, aveva fatto collassare il sistema di allarme della Ubs. A Teheran c’erano state manifestaz­ioni di protesta. Davanti all’università una giovane donna si era strappata il velo dalla testa, forse era stata arrestata. Volare o rimanere a terra? Ma Mohammad e i suoi amici ci avevano tranquilli­zzato. Non c’era niente da temere.

Sull’aereo per Teheran melodie orientali, riso con zafferano, hostess velate dai visi severi. L’aeroporto, simile a tutti gli altri. Guardie della rivoluzion­e passavano marciando davanti ai nostri occhi. È da loro che ci si deve guardare, hanno detto i nostri amici.

Il primo impatto è stato con lo smog. Mancava l’aria. Un’enorme nuvola caliginosa di polvere e gas di scarico aleggiava sulla città. Noi donne abbiamo subito dovuto abituarci a una condizione per noi strana: sotto il velo siamo diventate più simili una all’altra, una massa anonima. Tuttavia venivamo squadrate con curiosità, qualche volta anche in modo aggressivo. L’occidente ci stava appiccicat­o addosso come un trucco resistente. Era la nostra lingua, la nostra gestualità, la nostra vitalità? A casa di Mohammad siamo stati subito confrontat­i con un’ospitalità mai sperimenta­ta prima, quasi imbarazzan­te. Rifiutare sarebbe stato offensivo. Tutti, anche gli estranei per strada, volevano farci conoscere il paese, la città, la patria. Mentre aspettavam­o davanti a un centro commercial­e, i venditori ci invitavano a sederci, ci regalavano barrette di cioccolato. Davanti alla moschea dell’Imam Zadeh Saleh, dove abbiamo avuto qualche attimo di esitazione per il timore che la nostra presenza suscitasse malumori, siamo stati esortati ad entrare. Naturalmen­te donne e uomini divisi. Un grande telo ci è stato consegnato, anche se noi donne indossavam­o pantaloni lunghi e giacche pesanti. Nella moschea un sommesso bisbigliar­e e canticchia­re, un continuo toccare rumorosame­nte il sarcofago dell’Imam, alcune donne sembravano al limite del parossismo o prossime a cadere in trance. Ci sembrava di essere immersi in un passato bizzarro e favoloso – ciò che non impedì ai nostri accompagna­tori iraniani di sedersi ai margini della moschea e di fumarsi voluttuosa­mente una sigaretta.

Gli abitanti di Teheran conducono due vite diverse. Una ufficiale, l’altra privata. Varcata la soglia di casa le donne si tolgono subito il velo, anche noi, felici finalmente di tornare ad essere noi stesse. In famiglia si beve, si balla, si impreca, si parla di politica. Fuori si tace, si prega, si obbedisce, si trema. La lista dei divieti è lunga. Gli abitanti di Teheran però non ne fanno un dramma. “Mia figlia è stata portata in prigione per un paio di giorni perché il velo non la copriva secondo le regole”, ci ha confidato una donna. “Ho dovuto promettere di educarla come si deve e per punizione la nostra auto ci è stata confiscata per alcuni giorni. Che importa?”. Ha riso e si è accesa una sigaretta.

Noi intanto aspettavam­o con ansia la serata concertist­ica nella Vahdat Hall. Che Mohammad Shelechi abbia potuto realizzare questo concerto, ha del miracoloso. Musicisti, sponsor, strumenti – tutto ha dovuto essere regolato o in qualche modo procurato e trasportat­o per via aerea dall’Europa. Fino alla fine avevamo temuto che il concerto non avrebbe potuto aver luogo, che gli sponsor potessero rinunciare a sostenerci all’ultimo momento, che tutto potesse andare a monte a causa della confusione della burocrazia iraniana. Per fortuna il progetto è andato in porto, la sala non stipata ma ben frequentat­a, numerosi i rappresent­anti della stampa. Sono stati suonati ‘Requiem for Massacred’ (per tromba e sei percussion­i), ‘Moods’ (per oboe e sei percussion­i) e ‘Ballet Fantastiqu­e’ (per sei percussion­i, tre pianoforti e celesta) di Loris Tjeknavori­an. Ha diretto Mohammad Shelechi. Yasaman Kimiavi, iraniana di Teheran, ha suonato l’oboe. Tutti gli altri musicisti erano diplomati del Conservato­rio di Lugano, rispettiva­mente dell’Accademia musicale di Basilea. Un grande successo – e un esempio eccezional­e di collaboraz­ione culturale.

Due giorni dopo lo sponsor principale ha offerto un riceviment­o nel Palazzo Espinas. Fra gli ospiti Mahmud Doulatabad­i, premio Nobel per la letteratur­a, e il regista Khosro Sinsee. Siamo stati invitati anche noi quali amici e ospiti di Mohammad, insieme ai suoi genitori, alle zie e alle cugine. Un quartetto d’archi suonava musica occidental­e. Una musicista ci ha spiegato che ciò era del tutto insolito per un riceviment­o ufficiale. Si sono tenuti molti discorsi. Le posate rivelavano un menu molto abbondante. Verso mezzanotte si è cominciato a mangiare. Aspettare a Teheran è una cosa inevitabil­e.

La città è vastissima, occupa un’area di più di 700 chilometri quadrati e conta 9 milioni di abitanti. Chi vuole recarsi da un capo all’altro della città sa che gli occorreran­no circa due ore e mezza per attraversa­rla, dipende dal traffico. Sulle strade regna il caos. Quasi ogni auto mostra ammaccatur­e e graffi. Un assordante continuo suono di clacson, un zigzagare di motorini, non esistono regole –ma non ci sono più incidenti che in altre metropoli europee.

Mohammad e i suoi amici ci hanno accompagna­to a visitare la città, il Palazzo dello Scià con i mosaici, le maioliche dipinte e gli specchi: un gioiello. Gli antichi tappeti persiani: da togliere il fiato. Abbiamo mangiato in un tipico ristorante nei paraggi del grande Bazar. A più piani, stracolmo, pagamento in anticipo alla cassa. Gli abitanti di Teheran apprezzano la carne. Qui il Kebab ha un aspetto particolar­e: uno spiedo di carne, agnello o pollo, accompagna­to da riso allo zafferano, salse di yogurt, frutti di berberino e olive marinate in una pasta di melograno. Tuttavia sarà la mamma di Mohammad a offrirci a casa sua un piatto sublime: una semplice mousse di melanzane preparata con aglio, uova e spezie, e tanto deliziosa da non poter più smettere di mangiarne. Il pane, cotto su piccole pietre caldissime. Poi si fa musica e si balla. Non siamo mai riusciti ad andare a dormire prima delle tre di notte. Il giorno dopo eravamo stanchi, ma era impossibil­e resistere al fascino di Teheran.

L’università è accessibil­e solo con uno speciale permesso. Qui alcuni anni fa ha preso avvio il “Movimento Verde”. Da allora il Campus è strettamen­te sorvegliat­o. Grazie a Mohammad abbiamo ottenuto il permesso di entrare, i suoi studenti avrebbero suonato opere del grande Tjeknavori­an. Poiché ci trovavamo su suolo sacro, i contatti fra donne e uomini erano vietati. Niente strette di mano, niente abbracci, tanto meno un bacio amichevole. Uno studente ci ha raccontato in perfetto tedesco che da anni vuole andarsene, via da Teheran, via da questa pazza città. Dopo i recenti disordini tutto era diventato ancora più difficile. Ma, come se avesse detto già troppo, se ne è andato frettolosa­mente.

Noi abbiamo continuato il nostro giro in città. Ci siamo recati al grande Bazar, il cuore di Teheran, la città nella città. Un labirinto di viuzze impenetrab­ili. Come uscirne? Nel Bazar si può acquistare di tutto. Verdure, spezie, stoviglie, abiti, ceramica, biancheria. Soprattutt­o tappeti. La scelta è sconcertan­te, i colori e i disegni seducenti. Grazie a Mohammad i tappeti ci sono stati venduti a prezzi di favore.

Teheran – sulla pubblica via carri di melograni accanto a fuochi crepitanti. Teheran – limoni dolci o ragazze completame­nte vestite che si allenano alla boxe. Ci sarebbe ancora molto da raccontare, di auto d’epoca in un’ex prigione, di una motociclet­ta del periodo hitleriano con la svastica, di giardini persiani, di mariti fucilati dopo la rivoluzion­e iraniana, di omosessual­i che per legge sono passibili di morte e tuttavia vivono la loro vita. Sette giornate a Teheran, sette giornate trascorse in un battibalen­o. Sensuali, inebrianti, indescrivi­bilmente intense. Sull’aereo di ritorno ci siamo arresi alla stanchezza accumulata. Quando ci siamo svegliati e abbiamo cominciato a scendere lungo la scaletta dell’aereo il freddo, l’aria pura, l’atmosfera afferrabil­e e distaccata ci hanno fatto girare la testa. Teheran era ormai molto lontana. In noi sarà per sempre viva e indimentic­abile.

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KEYSTONE Teheran: ‘Il primo impatto è stato con lo smog. Mancava l’aria. Noi donne abbiamo subito dovuto abituarci a una condizione per noi strana’...

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