laRegione

Carpenteri­a per un sogno

- Di Davide Martinoni

Quando passano a piedi da via Vittore Pedrotta, a ridosso del palazzo della Sopracener­ina, i locarnesi sorridono a denti stretti. È solo una viuzza come tante, stretta, un po’ angusta, popolata dalle motorette che occupano un parcheggio perpendico­lare rispetto all’estremità orientale di Piazza Grande. E allo stesso modo sorridono quando circolano in zona Fevi diretti alle Scuole della Morettina. Fra i due “poli” c’è un grande prato alla perenne ricerca di un’identità: il sabato pomeriggio ci giocano a calcio squadrette di scapoli e ammogliati, oppure gruppuscol­i di ragazzini che con il pretesto della partitella vi sostano ai bordi, confrontan­do i telefonini e azzardando forse primi amori. Osservando questi luoghi si prova un po’ la stessa sensazione che emerge attraversa­ndo a piedi la rotonda di Piazza Castello, il grande vuoto per definizion­e, ravvivato di recente, senza troppo badare alla forma, da una pistarella (il “pump track”) per bici e skate. Volendoli interpreta­re, quei fuggevoli stati d’animo, non possiamo fare a meno di considerar­e che emergono tutti da un’illusione. Esplode con il Festival agli inizi d’agosto e 10 giorni dopo implode, senza lasciar traccia di sé. Via Vittore Pedrotta si trasforma nel “red carpet” del Festival del film, è la via d’accesso alla Piazza dove attori, registi e produttori si fanno fotografar­e prima di guadagnare il palco; sono quegli stessi personaggi che nei medesimi giorni spiegheran­no la loro arte negli affollatis­simi incontri proposti al Forum, la grande struttura in legno, con tanto di auditorium, sotto il cui pavimento si cela l’anonimo prato descritto in precedenza. Quanto alla rotonda, anch’essa si anima a tempo, per una ventina di giorni l’anno, durante la rassegna. Poi viene smantellat­a e torna soltanto un cerchio di ghiaia con un marciapied­e attorno. Questo era (e in parte rimane) il “modello Locarno”: un mix, invero piuttosto brutale, fra lunga letargia e breve risveglio primaveril­e, fra concreto ed effimero, fra illusione e disillusio­ne. Ma i modelli, talvolta, possono cambiare. Il primo e più importante segnale è stata la realizzazi­one del Palacinema, che ha idealmente ricoperto di mattoni la storica incertezza legata alla continuità del Festival. A ruota sono seguiti l’acquisizio­ne pubblica del Fevi (da intendere anche e soprattutt­o in funzione di una logistica all’avanguardi­a al servizio di una rassegna sempre più esigente) e gli ingenti investimen­ti già effettuati o previsti al GranRex, dove il Festival potrà finalmente vivere anche durante l’anno (a partire dall’imminente “L’immagine e la parola”). Tutti segnali dell’intenzione di mettere fondamenta, e qualche tetto in più, a quella “casa dei sogni” rappresent­ata da ciò che siamo stati abituati ad intendere come qualcosa che un po’ c’è, e un po’ non c’è più. Segnali, ancora, come quello, di cui riferiamo oggi in Cronaca di Locarno, rappresent­ato dalla scala mobile: lo strumento che potrebbe facilitare il collegamen­to fra Piazza Grande e Città Vecchia, i due più pregiati pezzi di nucleo oggi fiaccati dal commercio in crisi. Ecco allora che i segnali assurgono a simboli. Di inventiva, di crescita, forse anche di coraggio. Saperci finalmente credere sarebbe senz’altro un ottimo segnale.

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