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L’Ue tramonta a Est

La Grande Illusione del 2004, quando l’Unione europea accolse tra i propri membri i primi Paesi dell’ex blocco sovietico, si è dissolta in un problemati­co risveglio. Varsavia, Praga, Bratislava e Budapest non intendono più ‘prendere ordini’ da un centro c

- Di Giuseppe D’Amato

Mosca – “Sarò meno arrogante”. Questo il fioretto del rieletto presidente ceco Milos Zeman che ha sconfitto, per la contrariet­à di Bruxelles, il filo-europeista Jiri Drahos. Il cosiddetto Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) non ha perso alcun pezzo. Anzi. I Paesi Ue dell’Est fanno sempre più quadrato per fermare il progetto di riforme, trainate dall’asse franco-tedesco. Due opposte visioni dell’Unione si stanno scontrando: da una parte quella degli “Stati nazionali sovrani”, dall’altra quella incentrata sul modello delle “democrazie liberali, multicultu­rali e multirelig­iose”. E diversamen­te non potrebbe essere. Queste realtà centro-orientali hanno appena riacquista­to la libertà, con il crollo del Muro di Berlino nel 1989, ed ora non vogliono demandare ad al- tri competenze che ritengono proprie, riconquist­ate dopo anni di assoggetta­mento. Per molti loro cittadini l’Ue è la riedizione, in meglio, di qualcosa di simile all’Urss o alla Jugoslavia. Varsavia, Praga, Bratislava e Budapest non hanno perciò alcuna intenzione di prendere ordini da un centro federale e farsi imporre, ad esempio, le quote obbligator­ie dei migranti, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ironia della sorte, sarà un altro membro dell’Est, la Bulgaria – titolare della presidenza di turno dell’Unione – a dover gestire a livello comunitari­o entro giugno lo spinoso nodo della rilettura del “Regolament­o di Dublino”, punto di riferiment­o per la gestione delle migrazioni nel Vecchio continente. L’attrito Est-Ovest non è, però, una questione di carattere politico-ideologico. È vero che i “Paesi di Visegrad” sono governati principalm­ente da coalizioni nazionalis­te, spesso di destra, ma in Romania, dove al potere sono i socialdemo­cratici, si sono osservate analoghe approvazio­ni di leggi liberticid­e. La punta dell’iceberg è la Polonia, che ha subìto l’apertura di un’infrazione da parte della Commission­e europea per aver violato lo Stato di diritto. La riforma della giustizia minaccia infatti l’indipenden­za della magistratu­ra, assoggetta­ndo i giudici al controllo del governo. Il presente scontro è invero figlio dell’allargamen­to ad Est del 2004, quando – soprattutt­o per ragioni strategich­e e di giustizia storica – l’Ue accettò membri che non condividev­ano appieno tutti gli ideali europei. L’obiettivo era allora riportare queste terre nella giusta centralità geopolitic­a europea, dopo essere diventate periferie dell’impero sovietico, alla fine della Seconda guerra mondiale. La ricompensa per la scelta del 2004 e le scuse per averle abbandonat­e quattro decenni oltre cortina sono state rappresent­ate dai copiosi fondi struttural­i continenta­li. Con essi i membri dell’Est hanno ricostruit­o le loro economie, facendole crescere a ritmi prima inimmagina­bili, non sufficient­i tuttavia a rallentare l’esodo verso gli altri Paesi dell’Unione di specialist­i o di giovani in cerca di un futuro migliore.

L’Unione non è a rischio. Varsavia e le altre capitali sanno di non avere scelta.

Due finanziari­e europee, quelle del 2007-2013 e del 2014-2020, hanno garantito ricchezze e stabilità ai riottosi Paesi dell’Est. Ma la cuccagna potrebbe finire. Presto dovrebbero iniziare i negoziati per la prossima legge di bilancio, potenzialm­ente meno generosa, in particolar­e se lo scontro con l’asse Parigi-Berlino dovesse aggravarsi. A Bruxelles hanno dato molto fastidio certe posizioni quasi autoritari­e, filo-putiniane del ceco Zeman, dello slovacco Fico e dell’ungherese Orban. Mentre i polacchi appaiono essere la mano lunga di Washington all’interno dell’Unione. Così Varsavia è arrivata a chiedere alla Casa Bianca sanzioni contro chiunque agevoli il progetto di raddoppio del gasdotto “Nord Stream 2” sotto al Baltico tra la Russia e la Germania, il quale, al contrario, darebbe maggiore sicurezza agli approvvigi­onamenti energetici continenta­li. Il dubbio, in sintesi, è capire con chi stanno questi litigiosi membri Ue e quanto a lungo tireranno la corda. L’Unione è dunque a rischio? No. Questi Paesi sanno perfettame­nte di non avere scelta. Se il progetto europeo dovesse all’improvviso fallire finirebber­o sotto l’influenza di una risorgente Russia, sempre che essa sia in grado di riformarsi e di uscire dalla stagnazion­e putiniana, molto simile a quella brezhnevia­na di sovietica memoria. Nascerà inevitabil­mente l’Europa a più velocità: pensare che ventisette Paesi potessero avanzare costanteme­nte affiancati era illusorio, conoscendo le grandi differenze socio-economiche e storiche del continente. Allo stesso tempo non è condivisib­ile imporre condizioni non negoziabil­i che possono solo concorrere ad aggravare la deriva nazionalis­ta. Al presidente francese è finora toccato il ruolo di apripista, e di ricordare a tutti le ragioni dell’esistenza dell’Unione europea, baluardo contro tutti i nazionalis­mi e i possibili conflitti. “L’Europa – ha rimarcato Emmanuel Macron – ha la missione storica di difendere la libertà e la democrazia, minacciate da demagogia ed estremismi. Non si può, però, aspettare che tutti siano pronti. Chi non lo è non può fermare gli altri”. Che i ritardatar­i ne prendano atto, il messaggio.

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KEYSTONE Orban, un glorioso futuro alle spalle

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