laRegione

Visti dai ‘loro’

- Di Jacopo Scarinci

Su ‘Prima i nostri’ al di là della ramina c’è confusione, soprattutt­o su cosa preveda. E questo è un fatto. Parli, chiedi, ti tuffi nel ‘paese reale’. Le risposte sono uniche per candore e stupore. «Ah sì? È contro i frontalier­i?», «L’ha fatta il Nano Bignasca?», «Boh, io sono in pensione». È come se, attraversa­ta quella frontiera, ci fosse veramente un altro mondo. Un mondo lontano, eccezion fatta per la lingua che forse – e purtroppo, alle volte – ci unisce tutti: quella dei soldi. Perché è quando la butti sull’economia, e non sulla politica lontana – «tutti ladri anche da voi?» – che il pallone torna a centrocamp­o e si ricomincia a giocare. «Quando parliamo della Svizzera dobbiamo solo star zitti, perché tutti, chi più chi meno, abbiamo guadagnato qualche soldo grazie a loro». La tocca piano Anna, calabrese arrivata a Lavena Ponte Tresa negli anni 50 dopo la guerra. Lo dice sicura, appena sente che c’è un giornalist­a dalla Svizzera che sta facendo domande qua e là nel bar a pochi passi dalla dogana. E il Campari rosso che ha davanti nonostante siano le 10 scarse del mattino non mistifica il suo pensiero, non lo fa uscire dai binari. Tutt’altro. Paradossal­mente lo compone, lo rende ancor più sincero. «Vede, o si apriva un negozio qui e venivano a comprare la merce, o si andava a lavorare lì, e gli stipendi erano buoni. È inutile che oggi ci si lamenti se vogliono pensare ai loro disoccupat­i». Una lucidità che cozza, e non poco, con il carnevale di risposte che colleziono nel resto della mattinata in giro tra negozi di ogni tipo e bar di ogni nazionalit­à. Sempre la stessa, la domanda: «Cosa pensate degli svizzeri che vengono qui?». Sempre diverse, le risposte. Al punto da credere di essere finito in tanti microcosmi diversi dove le regole le dettano il caso e il sentimento piuttosto che quella cosa per qualcuno stramba che risponde al nome di ‘principio di realtà’. C’è chi definisce gli svizzeri che vengono il fine settimana «come fossero dei conquistad­ores, ti trattano un po’ dall’alto in basso, sono imperiosi e hanno un certo atteggiame­nto di superiorit­à». Provi a difendere la causa, a chiedere se magari è una novità degli ultimi anni sa, la pressione sul mercato del lavoro, la questione salariale, l’immigrazio­ne... ma è come una piuma sulla roccia: «No no, io è anni che sono in giro per il Varesotto, son sempre stati così». E il motivo? Si va dal sociologic­o «perché forse hanno un complesso con gli svizzeri che parlano tedesco» al tendente all’incarognit­o «ma spesso sono italiani che lì hanno trovato la fortuna e dicono ‘dopo di me chiudete la porta’, si dimentican­o da dove sono venuti». Eppure il sentimento diffuso, e torniamo alla questione economica, è che senza svizzeri non si batta cassa. «Senza di loro avrei il negozio vuoto», dice una signora che vende abbigliame­nto. «La mia clientela è almeno al 30 per cento fatta da svizzeri, soprattutt­o nel fine settimana – risponde Cheng, simpaticis­simo barista cinese che sono sicuro qualcuno abbia chiamato ‘Andrea’ – e tutti molto educati e gentili». Ma è con Graziella, commercian­te in valigie e borse, che finalmente il discorso trova un suo equilibrio. «Io sono qui da una vita, e con gli svizzeri non ho mai avuto alcun problema. Forse spesso non ci chiediamo fino in fondo cosa voglia dire andare a lavorare in un altro Paese: usi, costumi, tradizioni diverse. Bisogna sapersi integrare anche se vai lì solo per lavorare, è una questione di rispetto». Ma non solo, fa un paragone che forse un suo senso ce l’ha. «Quando parliamo della Svizzera – continua la commercian­te – parliamo di una nazione che da decenni e decenni ospita, integra, assimila. Assume persone per lavorare, ha un’immigrazio­ne continua. Ecco, noi in Italia siamo confrontat­i da poco con l’immigrazio­ne di gente che scappa dalle guerre e alcuni già non ne possono più. In Svizzera si va a lavorare, ma la loro tolleranza è nota, attenzione ai giudizi». Fermandosi qualche secondo a guardare la Tresa, esattament­e a metà tra le due dogane, ci si chiede quanto un fiume possa dividere e allo stesso tempo unire. Da quando l’Arcivescov­o di Milano in età moderna aveva le sue peschiere per anguille. E già allora, a qualcuno la cosa non andava molto a genio. «Merce o valuta da dichiarare?». «No, niente». «Prego, passi».

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