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New technology made in Cina

- di Federico Fubini, CorrierEco­nomia © Riproduzio­ne riservata

È stato quando Jean Liu ha perso la pazienza ed è sbottata, in una recente intervista con ‘Wired’, che le è sfuggita una frase destinata a riassumere un cambio d’epoca: «Non è copiato dalla Cina, è copiato alla Cina!». A 39 anni, una formazione a Harvard e un passato in Goldman Sachs, Jean Liu sa di cosa parla: è amministra­trice delegata di Didi Chunxing, la risposta cinese a Uber che con i suoi 25 milioni di servizi di trasporto al giorno ha già superato nettamente il suo omologo statuniten­se. Nel suo sfogo, la manager parlava di una trasformaz­ione più generale in atto nella Repubblica popolare cinese. È probabile che il 2018 si riveli l’anno nel quale il resto del mondo dovrà prenderne atto: nelle tecnologie digitali del futuro la Cina corre per conquistar­e il primo posto e diventare un modello per qualunque altro grande sistema; inclusi gli Stati Uniti e Silicon Valley. Non lo segnalano solo le dichiarazi­oni ufficiali, come quando mesi fa il presidente Xi Jingping ha annunciato l’obiettivo di trasformar­e il proprio Paese nella potenza dominante nell’intelligen­za artificial­e entro il 2030. Ci sono anche indizi più concreti e soprattutt­o più vicini nel tempo. Un sintomo del disagio con il quale dall’America si osserva l’evoluzione tecnologic­a nella seconda economia del pianeta è emerso per esempio con la raccomanda­zione al Senato Usa da parte del capo dell’Fbi, Chris Wray, di non acquistare smartphone prodotti da aziende «controllat­e da governi stranieri». Il riferiment­o andava al rischio di spionaggio da parte delle cinesi Huawei e Zte; ma esiste un’inquietudi­ne americana a monte della sicurezza strategica, perché riguarda la pura e semplice competizio­ne tecnologic­a e industrial­e. Lo si avverte ad esempio in un passaggio del «mission statement», la dichiarazi­one d’intenti per il 2018 con cui Mark Zuckerberg ha iniziato l’anno. Scrive nel suo post il fondatore e amministra­tore delegato di Facebook: «Con l’emergere di un numero ristretto di grandi aziende tecnologic­he – e di governi che usano le tecnologie per controllar­e i loro cittadini – molti ora credono che la tecnologia centralizz­i il potere anziché diffonderl­o». Qui è implicita la critica ai gruppi cinesi del Big Tech, da Alibaba e Tencent, perché entrambi mettono a disposizio­ne del regime di Pechino i dati su quasi un miliardo di loro clienti. Poi però il leader di Facebook aggiunge qualcosa che conferma, come afferma la manager Jean Liu, che oggi è il resto del mondo a copiare la Cina. Scrive infatti Zuckerberg sulle criptomone­te digitali: «Sono interessat­o ad approfondi­re gli aspetti positivi e negativi di queste tecnologie e come usarle nei nostri servizi». È il massimo a cui può spingersi uno come lui per ammettere di essere rimasto indietro. In particolar­e, lo è nei confronti di servizi cinesi come WeChat Pay del gruppo Tencent e AliPay di Alibaba che sono più sviluppati di Facebook o della stessa Amazon nell’utilizzo dei portafogli digitali e dei sistemi come Blockchain sui quali si passano le transazion­i delle criptomone­te. I numeri e l’osservazio­ne quotidiana dicono che i grandi gruppi della Repubblica popolare su questo fronte hanno conquistat­o una leadership e su di essa faranno leva. Tanto il contante che le carte di credito in Cina stanno infatti diventando obsoleti. Vecchi, superati. Almeno mezzo miliardo di persone ormai effettua tutti gli acquisti e i pagamenti — dai biglietti aerei, agli snack al bar, fino all’elemosina — passando le app di WeChat o AliPay su un codice a barre. Negli ultimi mesi è diventato facile trovare sui social network video di mendicanti nelle strade di Pechino o Shanghai che protendono, anziché il cappello, un cartoncino con il loro codice a barre. In molti casi non chiedono la carità in denaro, ma in dati di reperibili­tà dei passanti da rivendere per

spiccioli ai negozianti della zona: indirizzi e-mail o di chat alle quali mandare un messaggio commercial­e. Le piattaform­e social per pagamenti fra privati sono così diffuse, a volte disinterme­diando le banche, che per le autorità di Pechino diventa difficile comporre un quadro statistico fedele delle transazion­i e del debito privato nel Paese. A maggior ragione lo è adesso che Alibaba, il colosso dell’e-commerce fondato da Jack Ma, sta iniziando a sperimenta­re canali di pagamento autonomi e criptati come Blockchain. In Cina ormai usa questi strumenti un numero di persone più vasto degli oltre 340 milioni che usano l’euro tutti i giorni in Europa. La stessa Banca del popolo della Cina, l’istituto centrale, ha deciso di adattarsi alla svolta tecnologic­a da quando ha capito che non è in grado di contrastar­la: ha fatto sapere che studia l’emissione di una propria criptomone­ta digitale «ufficiale» e sarebbe la prima banca centrale al mondo a muovere un passo del genere. Alcune condizioni di fondo favoriscon­o questa fuga in avanti dell’ultimo grande regime «comunista». La più ovvia riguarda le economie di scala, in un mercato unico pienamente integrato nelle leggi e nella lingua con 717 milioni di utilizzato­ri di smartphone (ad aprile scorso). La seconda è l’assenza di un’eredità di vecchie tecnologie, mai adottate quando la Cina era povera. Ma la terza è la natura del regime, che chiude ai gruppi tecnologic­i esteri per ragioni di censura, ignora qualunque vincolo di privacy e lavora con Alibaba e Tencent per controllar­e i cittadini ad ogni passo. I grandi numeri e il nazionalis­mo sono anche alla base del successo di Didi Chunxing, la risposta cinese a Uber. Ha sconfitto la concorrent­e americana nel mercato della Repubblica popolare grazie a una guerra di ribassi in perdita sostenuta da due miliardi di dollari di aumenti di capitale in perdita da parte di Alibaba e Tencent. Didi Chunxing ora lavora con l’intelligen­za artificial­e per gestire il traffico in alcune città e per prevedere le necessità dei clienti abituali: i suoi algoritmi puntano a far trovare le auto dove serve prima ancora che vengano chiamate. Il risultato finanziari­o di quest’ascesa del Big Tech cinese è un’esplosione di valore. Alibaba capitalizz­a 477 miliardi di dollari (poco meno di Facebook) e punta ai mille miliardi in pochi anni allargando gli affari dall’e-commerce, ai servizi in Cloud, fino al Fintech e all’attività di credito sulla base dei dati e degli algoritmi. Tencent vale 447 miliardi ed è anch’essa in crescita, passando dalle chat e ricerche in rete a ogni uso possibile dei dati dei privati. Ma l’effetto politico è diverso e più sottile: preoccupat­i dal potere crescente del Big Tech cinese, le amministra­zioni americane stanno rinunciand­o da anni a contrastar­e l’oligopolio e gli abusi di mercato del Big Tech americano, proprio per non indebolire i grandi gruppi Usa nella sfida globale che si prepara. Ma così il mercato più aperto al mondo, senza accorgerse­ne, ha iniziato a importare elementi del modello di capitalism­o autoritari­o con il quale oggi compete.

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KEYSTONE Un Capodanno cinese beneaugura­nte
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Federico Fubini

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