New technology made in Cina
È stato quando Jean Liu ha perso la pazienza ed è sbottata, in una recente intervista con ‘Wired’, che le è sfuggita una frase destinata a riassumere un cambio d’epoca: «Non è copiato dalla Cina, è copiato alla Cina!». A 39 anni, una formazione a Harvard e un passato in Goldman Sachs, Jean Liu sa di cosa parla: è amministratrice delegata di Didi Chunxing, la risposta cinese a Uber che con i suoi 25 milioni di servizi di trasporto al giorno ha già superato nettamente il suo omologo statunitense. Nel suo sfogo, la manager parlava di una trasformazione più generale in atto nella Repubblica popolare cinese. È probabile che il 2018 si riveli l’anno nel quale il resto del mondo dovrà prenderne atto: nelle tecnologie digitali del futuro la Cina corre per conquistare il primo posto e diventare un modello per qualunque altro grande sistema; inclusi gli Stati Uniti e Silicon Valley. Non lo segnalano solo le dichiarazioni ufficiali, come quando mesi fa il presidente Xi Jingping ha annunciato l’obiettivo di trasformare il proprio Paese nella potenza dominante nell’intelligenza artificiale entro il 2030. Ci sono anche indizi più concreti e soprattutto più vicini nel tempo. Un sintomo del disagio con il quale dall’America si osserva l’evoluzione tecnologica nella seconda economia del pianeta è emerso per esempio con la raccomandazione al Senato Usa da parte del capo dell’Fbi, Chris Wray, di non acquistare smartphone prodotti da aziende «controllate da governi stranieri». Il riferimento andava al rischio di spionaggio da parte delle cinesi Huawei e Zte; ma esiste un’inquietudine americana a monte della sicurezza strategica, perché riguarda la pura e semplice competizione tecnologica e industriale. Lo si avverte ad esempio in un passaggio del «mission statement», la dichiarazione d’intenti per il 2018 con cui Mark Zuckerberg ha iniziato l’anno. Scrive nel suo post il fondatore e amministratore delegato di Facebook: «Con l’emergere di un numero ristretto di grandi aziende tecnologiche – e di governi che usano le tecnologie per controllare i loro cittadini – molti ora credono che la tecnologia centralizzi il potere anziché diffonderlo». Qui è implicita la critica ai gruppi cinesi del Big Tech, da Alibaba e Tencent, perché entrambi mettono a disposizione del regime di Pechino i dati su quasi un miliardo di loro clienti. Poi però il leader di Facebook aggiunge qualcosa che conferma, come afferma la manager Jean Liu, che oggi è il resto del mondo a copiare la Cina. Scrive infatti Zuckerberg sulle criptomonete digitali: «Sono interessato ad approfondire gli aspetti positivi e negativi di queste tecnologie e come usarle nei nostri servizi». È il massimo a cui può spingersi uno come lui per ammettere di essere rimasto indietro. In particolare, lo è nei confronti di servizi cinesi come WeChat Pay del gruppo Tencent e AliPay di Alibaba che sono più sviluppati di Facebook o della stessa Amazon nell’utilizzo dei portafogli digitali e dei sistemi come Blockchain sui quali si passano le transazioni delle criptomonete. I numeri e l’osservazione quotidiana dicono che i grandi gruppi della Repubblica popolare su questo fronte hanno conquistato una leadership e su di essa faranno leva. Tanto il contante che le carte di credito in Cina stanno infatti diventando obsoleti. Vecchi, superati. Almeno mezzo miliardo di persone ormai effettua tutti gli acquisti e i pagamenti — dai biglietti aerei, agli snack al bar, fino all’elemosina — passando le app di WeChat o AliPay su un codice a barre. Negli ultimi mesi è diventato facile trovare sui social network video di mendicanti nelle strade di Pechino o Shanghai che protendono, anziché il cappello, un cartoncino con il loro codice a barre. In molti casi non chiedono la carità in denaro, ma in dati di reperibilità dei passanti da rivendere per
spiccioli ai negozianti della zona: indirizzi e-mail o di chat alle quali mandare un messaggio commerciale. Le piattaforme social per pagamenti fra privati sono così diffuse, a volte disintermediando le banche, che per le autorità di Pechino diventa difficile comporre un quadro statistico fedele delle transazioni e del debito privato nel Paese. A maggior ragione lo è adesso che Alibaba, il colosso dell’e-commerce fondato da Jack Ma, sta iniziando a sperimentare canali di pagamento autonomi e criptati come Blockchain. In Cina ormai usa questi strumenti un numero di persone più vasto degli oltre 340 milioni che usano l’euro tutti i giorni in Europa. La stessa Banca del popolo della Cina, l’istituto centrale, ha deciso di adattarsi alla svolta tecnologica da quando ha capito che non è in grado di contrastarla: ha fatto sapere che studia l’emissione di una propria criptomoneta digitale «ufficiale» e sarebbe la prima banca centrale al mondo a muovere un passo del genere. Alcune condizioni di fondo favoriscono questa fuga in avanti dell’ultimo grande regime «comunista». La più ovvia riguarda le economie di scala, in un mercato unico pienamente integrato nelle leggi e nella lingua con 717 milioni di utilizzatori di smartphone (ad aprile scorso). La seconda è l’assenza di un’eredità di vecchie tecnologie, mai adottate quando la Cina era povera. Ma la terza è la natura del regime, che chiude ai gruppi tecnologici esteri per ragioni di censura, ignora qualunque vincolo di privacy e lavora con Alibaba e Tencent per controllare i cittadini ad ogni passo. I grandi numeri e il nazionalismo sono anche alla base del successo di Didi Chunxing, la risposta cinese a Uber. Ha sconfitto la concorrente americana nel mercato della Repubblica popolare grazie a una guerra di ribassi in perdita sostenuta da due miliardi di dollari di aumenti di capitale in perdita da parte di Alibaba e Tencent. Didi Chunxing ora lavora con l’intelligenza artificiale per gestire il traffico in alcune città e per prevedere le necessità dei clienti abituali: i suoi algoritmi puntano a far trovare le auto dove serve prima ancora che vengano chiamate. Il risultato finanziario di quest’ascesa del Big Tech cinese è un’esplosione di valore. Alibaba capitalizza 477 miliardi di dollari (poco meno di Facebook) e punta ai mille miliardi in pochi anni allargando gli affari dall’e-commerce, ai servizi in Cloud, fino al Fintech e all’attività di credito sulla base dei dati e degli algoritmi. Tencent vale 447 miliardi ed è anch’essa in crescita, passando dalle chat e ricerche in rete a ogni uso possibile dei dati dei privati. Ma l’effetto politico è diverso e più sottile: preoccupati dal potere crescente del Big Tech cinese, le amministrazioni americane stanno rinunciando da anni a contrastare l’oligopolio e gli abusi di mercato del Big Tech americano, proprio per non indebolire i grandi gruppi Usa nella sfida globale che si prepara. Ma così il mercato più aperto al mondo, senza accorgersene, ha iniziato a importare elementi del modello di capitalismo autoritario con il quale oggi compete.