La Berlinale e il dramma di Utøya
In concorso immagini che ripercorrono dolorosamente la Storia, con ‘Utøya 22. Juli’ di Erik Poppe e ‘3 Tage in Quiberon’ di Emily Atef. Il primo è un sessantenne norvegese abituale frequentatore della Berlinale, la seconda è una quarantacinquenne berlinese già premiata a Cannes, ma ancora non laureata in un grande festival. Poppe con buon piglio porta sullo schermo una delle giornate più tragiche del recente passato del suo Paese, il 22 luglio del 2011 quando nello stesso pomeriggio prima la città di Oslo fu colpita da un grave attentato terroristico nel quartiere governativo e poi, sull’isola di Utøya, un campus organizzato dalla sezione giovanile del partito laburista fu attaccato da un lucido neonazista che barbaramente assassinò 69 tra ragazze e ragazzi, ferendone 110, di cui 55 in maniera grave. Il film si apre con le immagini del primo attentato che costò la vita a otto persone e il ferimento di altre 209. Pochi minuti e il regista ci porta in quel campeggio di Utøya per presentarci Kaja (la bravissima Andrea Berntzen), un personaggio di finzione, che nasce dai vari racconti dei sopravvissuti della più importante strage avvenuta in Norvegia dopo la fine della Seconda guerra mondiale. E la scelta è magnifica perché permette al pubblico di essere partecipe del suo destino di morte: in lei si fondono il coraggio e la generosità di quei ragazzi che dalla gioia sono passati al dramma di essere figure in carne e ossa nel videogame criminale in cui il lurido assassino è il giocatore. Con grande coraggio il regista commuove senza mai perdere la forza narrativa, con grande rispetto verso quei giovani segnati dalla morte e dalla disperazione che cancella la felicità del vivere. Alla fine il silenzio addolorato del pubblico ha coperto gli applausi. Non convince invece “3 Tage in Quiberon” dedicato ai tre giorni dell’intervista che l’indimenticabile Romy Schneider concesse al poco corretto reporter di ‘Stern’ Michael Jürgs a Quiberon, sulla costa bretone, nel 1981. Nel suo film in bianco e nero, la regista berlinese affida la fatica di interpretare la Schneider a una fragile Marie Bäumer che poco ha a che vedere con il carisma dell’originale, e ci si accorge ripensando a Romy Schneider quanti passi ancora dovrà compiere la Bäumer per diventare veramente attrice e non restare comparsa. Naturalmente dovrà trovare una regista migliore, più attenta ai caratteri che rappresenta e meno legata al cinema dei gossip.