Perdere per perdere…
Il centrosinistra arriva al voto in piena crisi. I contrasti politici e le insofferenze personali hanno generato una frantumazione disastrosa che produrrà, è quasi sicuro, un risultato molto deludente. Ma l’arretramento parla anche dello smarrimento di un
Nella migliore delle ipotesi perderà, nella peggiore ne uscirà demolita. Nel volgere di pochi anni, la sinistra italiana ha cambiato più nomi e leader di quanto non avesse fatto dal dopoguerra; ha fondato una ragione d’essere nella battaglia ventennale contro Berlusconi; ha raggiunto l’apice di consensi con il “compromesso storico realizzato” (che cos’altro era il Partito democratico?); ha infine gettato via tutto legando le proprie sorti a quelle di un vanesio rampollo di scuola tosco-democristiana. Se il Pci ha per decenni stigmatizzato la propensione delle proprie minoranze al “correntismo” (e se non la capivano le espelleva), fonte di divisioni e scissioni, il partito che si è preteso suo erede ha fatto esattamente quella fine: dissensi politici e risentimenti personali se ne sono spartiti le spoglie, sotto forma di liste, partitini, movimenti il cui obiettivo del 4 marzo è innanzitutto quello di far fuori Matteo Renzi. Ci riusciranno, molto probabilmente, sacrificando peraltro sé stessi, autocondannati all’irrilevanza. A meno di due settimane dalle elezioni, e con una importante porzione di interpellati che si dichiarano incerti, le intenzioni di voto sembrano dare il Pd a poco più del 20 per cento, la metà del celebre 40% alle Europee cavalcato a lungo da Matteo Renzi, fino a esserne disarcionato. Aggiungendo a quella forza ipotetica le intenzioni espresse per Liberi e Uguali (gli scissionisti raccolti attorno a Pietro Grasso, uomo probo finché si vuole, ma che si trascina dietro le ombre di D’Alema e Bersani) ed eventualmente quelle per Emma Bonino (la lista +Europa, che definire comunque di sinistra è segno di larghissime vedute), insomma tutto sommando si arriva attorno al 30 per cento, lontano da quanto si prevede possa cumulare la destra. Ma il problema non è soltanto quello di uscire con le ossa rotte da un confronto che solo un paio d’anni fa sarebbe parso una passeggiata. Il problema è decidere che cosa scrivere sulla pietra tombale: morta per sfinimento, suicida, per una pugnalata alle spalle? È ben vero che alzando appena lo sguardo si potrebbe facilmente constatare che da vent’anni almeno le esperienze al governo (sole o in condominio) hanno avuto un costo elettorale catastrofico per tutte le sinistre europee. Ma, nel caso italiano, spicca l’aggravante che il prevedibile tracollo non è dovuto a meriti o al valore degli avversari (li si guardi, per averne conferma), ma a un proprio sciagurato demerito. Né, sembra, l’imminente sconfitta sarà catartica. Non solo manca un personale politico nel quale si riconoscano figure capaci di ricomporre e rimotivare ranghi e truppe; a fare soprattutto difetto è un progetto, un quadro ideale di riferimento, riconoscibile come di sinistra (una pur cauta socialdemocrazia, un laburismo ben temperato) in alternativa democratica, ma ferma e propositiva, a un pensiero unico liberista, da una parte, e ai nazionalismi che hanno ormai infettato il discorso pubblico e i comportamenti collettivi. Le persone, insomma, contano, in un’epoca che richiede una presenza continua e un’immagine corrispondente, ma a fare la differenza dovrebbe ancora essere la sostanza; la politica che interviene nella realtà (altro che la presunta autonomia che le attribuiva D’Alema), e che sa collocarsi nella storia, per concorrere a produrne di nuova. E quella che in Italia si vuole ancora chiamare sinistra, a questo proposito, dovrà porsi qualche interrogativo. Non solo riguardo alla dubbia “prudenza” con cui ha (non) organizzato una reazione alla sparatoria fascista di Macerata, il che potrebbe chiamare in causa soprattutto la dirigenza; ma anche a un livello più di base, di militanza, se è vero ciò che ha messo in rilievo una ricerca di Demos, l’istituto demoscopico diretto da Ilvo Diamanti: e cioè che tra i potenziali elettori del Pd e di Liberi e Uguali “il giudizio positivo su Benito Mussolini è inferiore al dieci per cento”. Non “pari a zero”, ma “inferiore eccetera”. E allora, di che cosa stiamo parlando?