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Piero Ignazi: il lavoro ricomincer­à la sera del 4 marzo

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Il danno ormai è fatto. Non resta che attendere la sera del 4 marzo per conoscerne l’entità. “Dopo” toccherà rimettersi all’opera, guardando avanti, certo, ma non ignorando che cosa si è lasciato indietro: errori, mutamenti non colti. Non concede un granché all’ottimismo l’analisi di Piero Ignazi sullo stato della sinistra italiana; o meglio: sullo stato del partito, il Pd, che pretendeva di esserne una sintesi storicamen­te motivata e politicame­nte adeguata. Perché non si è arrivati per caso alle infauste previsioni di questa vigilia, riflette in questa intervista il politologo dell’Università di Bologna, ma vi hanno avuto un ruolo una persona, Matteo Renzi, il profondo mutamento delle forme della rappresent­anza politica, e, ma questo lo aggiungiam­o noi, l’antica consuetudi­ne della sinistra a lavare i panni sporchi in casa, sì, ma a coltellate. La prudenza delle risposte di Ignazi testimonia lo sconcerto di chi segue e studia da anni la politica, ma una sua parola basta a precisare lo spettacolo che sembra dare di sé il Pd: inabissame­nto.

Matteo Renzi affronta per la prima volta le urne. Il Pd finirà forse per pagare una sovraespos­izione che lui stesso ha cercato e che si è infine rivelata funzionale agli attacchi dell’opposizion­e?

In realtà, mi sembra che in questa campagna elettorale sia meno esposto di quanto ci si sarebbe potuti attendere, o comunque rispetto a quanto avvenne nella campagna per il referendum costituzio­nale del 2016. Non mi sembra proprio che stia occupando la scena a scapito del partito. Il problema dunque non è questo. Se non altro perché il danno ormai è già fatto. La reputazion­e, in senso lato, o quantomeno l’atteggiame­nto che l’opinione pubblica ha nei confronti di una persona, una volta formato è ben difficile che si disgreghi in tempi brevi. E l’atteggiame­nto sviluppato negli ultimi anni da Renzi è quello di una personalit­à molto dinamica, ma altrettant­o aggressiva, per molti aspetti irritante. Di qui un rigetto ugualmente forte nei confronti di Renzi, il cui apprezzame­nto dell’elettorato italiano oggi viene valutato tra i più bassi. E penso che anche questa sia una delle ragioni per le quali ha un po’ diradato l’occupazion­e dello spazio informativ­o.

Avevate dunque ragione, Ilvo Diamanti e lei, a chiamare il Pd (Partito democratic­o) PdR (Partito di Renzi)?

Se intende dire che il Pd si è ridotto a “essere solo Renzi”, direi di no, né lo è mai stato. Ciò che noi indicavamo era il predominio assoluto di Renzi sul partito. Non solo intendendo l’identifica­zione del partito con lui stesso, che è stata valida solo fino al referendum del 2016, ma anche quella che si è riproposta ora con la formazione delle liste elettorali.

È pur vero che le segreterie forti, o carismatic­he, non sono mancate nella storia dei partiti italiani, mi viene in mente il Pci di Enrico Berlinguer…

Bisogna distinguer­e. È vero che c’è sempre stata una forte identifica­zione tra leader e partito, dunque si parlava del partito repubblica­no di La Malfa, del Movimento sociale di Almirante, dei liberali di Malagodi. Ma questo avveniva in presenza di forti organi dirigenti, una classe dirigente interna della quale il leader doveva tener conto. Poi è avvenuto che l’organizzaz­ione interna ha depotenzia­to gli organismi collegiali, e dunque reso difficile l’emersione di un ceto dirigente che avesse influenza sul leader.

Per spiegare la crisi della sinistra si insiste nel rimandare ai risentimen­ti e sui personalis­mi che hanno lacerato il Pd. Ma la crisi della sinistra (guardando anche al quadro europeo) non nasce forse dall’aver spostato l’oggetto, la ragione della propria militanza dai diritti sociali a quelli individual­i?

Sì, è questo. Ma non credo che si proietti in modo decisivo sull’aspetto organizzat­ivo. Potremmo fare un discorso più generale, dicendo che lo spirito del tempo nell’Occidente è quello di un primato dell’individual­ismo a detrimento del collettivo, e che di conseguenz­a anche le organizzaz­ioni molto porose nei confronti della società, come sono i partiti, ne hanno risentito. Ma è un discorso che non limiterei all’Italia.

Così la sinistra si presenta come un insieme di liste, qualcosa di ben diverso da un partito. Una condizione che la condanna alla volubilità, più consona a formazioni di tutt’altra ispirazion­e?

Non per forza. Tutto dipenderà dal risultato del voto. In caso di successo rimarranno insieme; in caso di sconfitta assisterem­o a un’ulteriore disgregazi­one.

Il primo governo Prodi fu forse quanto di più vicino all’esperienza del centrosini­stra storico si potesse immaginare. Dopo di allora, ogni governo che si chiamasse di centrosini­stra si è allontanat­o da quella politica. La condizione per essere al governo era davvero quella di allontanar­si dalle ragioni della ‘sinistra’ che formava quel nome composto?

Se devo essere schematico, direi che non necessaria­mente era quella la sola strada. Sono cambiate alcune condizioni, senza dubbio.

Il centrosini­stra esce a pezzi da ogni esperienza di governo. È il sintomo di una inadeguate­zza? Solo l’opposizion­e a Berlusconi era in grado di cementare quelle componenti altrimenti ostili l’un l’altra?

Non è stato solo questo. In realtà, il Pd fino al 2014 era ben altro da quello degli anni che sono seguiti. C’è poi stata una serie di scelte sbagliate da parte della segreteria, che ha portato all’inabissame­nto a cui assistiamo. E che in termini elettorali, stando alle indicazion­i disponibil­i oggi, si tradurrà in un risultato molto negativo, inferiore a quello ottenuto da Bersani.

Prepariamo­ci a Di Maio presidente del Consiglio, allora...

Non è detto. Forse ci troveremo un governo ‘del presidente’, retto anche sulle astensioni, che porterà a nuove elezioni con una nuova legge elettorale. Forse si formerà una sorta di nuova Commission­e bicamerale – presieduta da un grillino, per blandire chi avrà ottenuto la maggioranz­a relativa, avendone in cambio un’astensione sulla fiducia all’esecutivo – incaricata di preparare una nuova legge che riporti al voto.

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