Il dolore e la serenità
Due mostre della Fondazione Matasci indagano l’arte di Zoran Music e i drammi del Novecento Dal paesaggio che diventa un puro stato d’animo nelle serene opere di Music esposte a Tenero, alla rielaborazione della tragica esperienza a Dachau con la serie ‘N
Mario Matasci ha inaugurato due mostre tra loro fortemente intrecciate: la prima alla Matasci Arte di Tenero, dedicata ad Anton Zoran Music, pittore nato nel 1909 poco fuori Gorizia – allora sotto dominazione austroungarica – e morto a Venezia nel 2005. La seconda, che prende le mosse da quella, al Deposito della fondazione a Cugnasco-Gerra, è un percorso di meditazione e di silenzio dentro le tragiche vicende del Novecento. Circa vent’anni fa Mario Matasci aveva già esposto un piccolo nucleo di opere di Music, poi le aveva relegate, forse aspettando il momento opportuno per rimetterle fuori. Il perché si sa: la pittura di Music è intrisa della sua vita, ripercorre per cicli quelli che sono momenti, memorie, rimpianti ma anche drammi e tragedie di un’esistenza che si riverbera dentro la sua opera dando vita a due nuclei assai diversi.
Un’esperienza a lungo rimossa
Da una parte l’alveo principale della sua produzione, accordato sui toni dell’elegia e legato ai luoghi e alle memorie dell’infanzia, trasfigurati dalla distanza temporale: come i viaggi fatti da bambino attraverso i paesaggi carsici, aridi e spogli, battuti dal vento, ma che approdavano poi alla grande città di Trieste, al mare… e più lontano ancora alla mitica Venezia, porta affacciata sull’oriente, carica di luci e mosaici come la grande Bisanzio. Da qui le serie dei cavallini, delle colline dalmate con le carovane dei mercanti, oppure le reti dei pescatori stese ad asciugare, i magri paesaggi carsici, fino a giungere alle evanescenti vedute di una Venezia languidamente distesa sulle acque dei suoi canali, in tramonti dorati che si perdono lontano o che riverberano nei mosaici di San Marco. Sono questi i cicli di opere che Mario Matasci ha esposto a Tenero. Più che il vedere qui conta il sentire: non l’oggetto raffigurato, ma il tono, l’atmosfera, i silenzi ovattati delle luci del giorno che ormai
lasciano posto alla sera, per cui le cose iniziano a perdere la loro specifica identità per fondersi con quelle vicine e intridersi della luce del crepuscolo. Per Music l’arte non deve copiare la natura o il paesaggio, ma trasporlo su un piano di verità emozionale fintantoché il paesaggio non divenga un puro stato d’animo: tra melanconia e serenità, come titola la mostra. Scrive Music: “Tutta la mia vita è girata intorno a una sola tematica: il paesaggio desertico che è la vita. Una vita bruciata dal sole e battuta dal vento”. C’è però anche un altro Music, molto più breve e bruciante: quello segnato dal
dramma della guerra e della deportazione a Dachau. Due anni, ma pesanti come un macigno, un’esperienza e un tormento inalienabili: che uno si porta dentro, chiude nel fondo di se stesso, non ne parla, non racconta. Anche lui non ne parla per quasi trent’anni, poi agli inizi degli anni 70 ecco che quella memoria riemerge quasi di botto in pittura: e sarà la serie, terribile, del ciclo ‘Nous ne sommes pas les derniers’, in cui l’artista rievoca memorie sopite dando alla sua esperienza di vita la dimensione di una tragedia universale. Questo non è più il Music elegiaco e memoriale delle luci ovattate, quello suo adesso è un urlo agghiacciante e straziato. Per questo tali opere non potevano esser messe in linea con le precedenti, richiedevano invece uno spazio diverso, un respiro più vasto, una cassa di risonanza con altre opere che consuonassero. È così che è nata la seconda rassegna che prende il titolo da una celebre opera della Kollwitz sulla tragedia della prima guerra: ‘Mai più’. Quello che Mario Matasci ci fa qui rivivere è un attraversamento – morale prima ancora che artistico – delle tragedie del “secolo breve” che ci siamo appena lasciati alle spalle: dalle terre balcaniche di Music dove si è accesa la miccia della prima guerra mondiale al tragico conflitto in Jugoslavia che lo ha concluso. Si apre con una corona di filo spinato, memoria allusa del Cristo, ma anche – come scrive Ungaretti – elemento emblematico del nostro tempo, “degno di essere preso a simbolo della nostra èra tragica”. Lo chiude un pensiero di Aldo Bertagni: “Come possiamo raccontare tutto questo inferno? Non si può. Ma ricordarlo sì, la memoria è l’unico tributo che abbia senso” (‘laRegione’, 19 giugno 2017). Che è appunto quanto Mario Matasci ha inteso fare con questa sua intensa rassegna.