I paradossi dell’economia
L’innovazione tecnologica e l’inflazione non vanno quasi mai a braccetto La crescita economica si è manifestata in modo sincrono nei principali Paesi, ma salari e prezzi rimangono sostanzialmente fermi
Nell’ultimo anno la crescita economica nelle principali aree del mondo è tornata a essere sincronizzata. Dall’Eurozona agli Stati Uniti, passando per il Giappone e le economie emergenti, il Pil ha ritrovato il segno positivo in modo più o meno marcato. Eppure questa crescita non è accompagnata dai classici segnali inflazionistici. Tralasciando il caso degli Stati Uniti con un tasso d’inflazione tendenziale vicino al 2%, nell’Eurozona e in Giappone l’aumento del livello generale dei prezzi resta ancora lontano da questo obiettivo che le principali banche centrali si sono date. «Nelle economie dove la popolazione non cresce, l’innovazione tecnologica è l’unica via per aumentare la produttività e quindi la crescita economica», spiega Matteo Ramenghi, Chief investment officer di Ubs Whealth management Italia. Ma in questi anni c’è un paradosso apparentemente incomprensibile: la crescita economica non riflette la rivoluzione tecnologica, anzi la produttività cresce meno della tecnologia. Stando ai dati della Banca mondiale l’aumento reale medio del Pil globale negli ultimi 8 anni è stato di poco superiore al 3,5% mentre, a
titolo di paragone, negli anni 60 il Pil reale (al netto dell’inflazione) cresceva del 6 per cento. «L’impatto di una nuova tecnologia è sempre deflattivo e inizialmente distrugge posti di lavoro. Gli effetti positivi si vedono solo dopo, come dimostra la storia passata», continua Ramenghi ricordando
che ci vuole tempo per far sentire gli effetti di una nuova tecnologia sull’economia. Quindi, riassumendo, l’attuale crescita non riflette una rivoluzione tecnologica, la produttività del lavoro è stagnante e l’inflazione rimane bassa. Eppure è stata proprio la paura di una fiammata inflazionistica, unita alle vendite decise automaticamente dagli algoritmi che governano le scelte d’investimento dei principali investitori internazionali, a scatenare il panico sui principali listini all’inizio di febbraio. E sarà il timore inflazionistico a far propendere la Fed per un rialzo più rapido dei tassi d’interesse. «Secondo la nostra previsione, quest’anno saranno quattro i rialzi e il primo potrebbe essere annunciato molto probabilmente il prossimo 21 marzo», afferma invece Elena Guglielmin, Senior credit analyst presso Ubs. «La divergenza tra la politica monetaria della Bce e quella della Fed si accentuerà visto che il primo passo verso la normalizzazione nell’Eurozona arriverà solo nella prima metà del prossimo anno». La Banca nazionale svizzera, continua Guglielmin, «seguirà una dinamica simile anche se per vedere i tassi di riferimento in territorio positivo bisognerà aspettare il 2020».
Franco svizzero più debole, forse
Se così fosse, vorrà dire che il franco svizzero non sarà più considerato un bene rifugio. Non troppo, almeno. «L’economia elvetica dovrebbe beneficiare di una valuta più debole sia nei confronti del dollaro sia dell’euro con ricadute positive anche sui consumi interni», commenta Guglielmin. Molto dipenderà anche dalla stabilità politica dell’Eurozona. L’esito delle elezioni italiane del 4 marzo, nel caso si affermassero forze anti-sistema, potrebbe riaprire le tensioni sulla sostenibilità del debito pubblico.