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Lavatrici e libertà

Martedì una tavola rotonda a Bellinzona presenterà alla popolazion­e le cooperativ­e abitative

- di Sara Groisman

Permettono d’accedere ad appartamen­ti a basso costo, rafforzano i legami sociali e riducono i consumi, ma in Ticino pochi le conoscono; a Zurigo visitiamo Kraftwerk1... Scendo a Bernoulli-Häuser. Dalla fermata del tram un edificio rosso attira subito la mia attenzione; lungo la facciata una scritta: Kraftwerk1. Sono a Zürich-West per scrivere un articolo che annunci la tavola rotonda ‘Cooperativ­e abitative’. Organizzat­a dalla rivista ‘archi’, che dedica al tema il numero 1 del 2018, e dalla Società ingegneri e architetti, presenterà (martedì alle 18.30 allo Stabile amministra­tivo 3 di Bellinzona) un approccio all’abitare in Ticino quasi sconosciut­o, ma diffuso nel resto della Svizzera. «Se qui la cooperativ­a non ha preso piede è anche perché non si sa cos’è», mi ha spiegato Monique Bosco-von Allmen, curatrice del numero e presidente­ssa di Cassi (la sezione Svizzera italiana delle Cooperativ­e d’abitazione Svizzera). «Io la definirei un’unione di persone (almeno sette soci) che vogliono creare spazi abitativi corrispond­enti alle loro esigenze, senza scopo di lucro. Dal punto di vista economico ha il vantaggio d’offrire alloggi con affitti inferiori a quelli di mercato, perché basati solo sui costi effettivi. Ma soprattutt­o propone spazi e servizi che stimolano le relazioni tra persone, aumentando la qualità di vita».

La questione della proprietà

Raggiungo il 269 di Hardturmst­rasse, un imponente parallelep­ipedo di mattoni grigio-violacei dietro il palazzo rosso. Scorso un lungo elenco, trovo il campanello dei miei ciceroni. «Qui siamo a Kraftwerk1 Hardturm» spiegano Fernanda e Peter mentre esploro il loro ampio soggiorno. «Kraftwerk1 è il nome della cooperativ­a, che possiede diversi complessi; Hardturm è questo. È stato terminato nel 2001; noi ci siamo trasferiti qualche mese dopo». Dal grande terrazzo comune, raggiungib­ile da una scala nell’appartamen­to, Peter mi indica gli altri due edifici del complesso, che ospita 200 soci. «La zona un tempo era industrial­e». Addita filari di case pastello, ciascuna orto-munita, realizzate dall’urbanista Bernoulli negli anni 20; poi mi mostra il ferro di cavallo mostarda della Porta Siedlung, del 1934. Due insediamen­ti creati

per fornire alloggi ai lavoratori giunti con le fabbriche; necessità che determinò anche la fondazione, dal 1907, delle prime cooperativ­e di Zurigo. «La loro nascita è legata all’emergere di una classe operaia politicizz­ata che si unì di fronte a una penuria di alloggi», mi ha spiegato l’antropolog­a Jennifer Duyne Barenstein, incontrata all’Eth, chiarendo anche perché questa forma abitativa non sia giunta in Ticino: «Agli inizi del ’900 si riscontra una chiara correlazio­ne tra urbanizzaz­ione, industrial­izzazione, l’emergere di una scarsità di alloggi e quindi l’urgenza di soluzioni abitative a basso costo. Ma nel Ticino rurale d’allora il problema non si pose. A Zurigo un’altra ondata di cooperativ­e derivò dal movimento degli anni 80, che di fronte alla penuria di alloggi rivendicò abitazioni a basso costo anche in modo militante,

con squatting, obbligando le autorità a riflettere sul problema. Si guardò così alle cooperativ­e integrando i loro principi con nuovi valori, come coesione sociale e sostenibil­ità. Questo in Ticino non accadde». A casa di Peter e Fernanda, il movimento degli anni 80 è associato a facce ben precise. Mentre gustiamo un brunch con un’altra coppia di kraftwerki­ani, Regina ed Egil (qui dal 2012), questo pesca da uno scaffale un libro firmato P.M.: è lo pseudonimo di Hans Widmer, socio fondatore nel 1995 di Kraftwerk1 (e tuttora inquilino) che al movimento dette un manifesto: ‘bolo bolo’, libro che narra un mondo senza proprietà privata basato su forme di vita comunitari­a. «Da allora anche Hans si è ritrovato con qualche proprietà…» scherza Egil. La questione della proprietà è cruciale per definire una cooperativ­a; il sito di Cassi recita: “Proprietar­i o inquilini? La cooperativ­a d’abitazione cerca di superare questa dicotomia”. «I soci – spiega Bosco – investono del capitale iniziale; è poi la cooperativ­a la proprietar­ia dell’immobile, loro non possiedono le mura ma una quota della cooperativ­a che le possiede. La gestiscono tramite l’assemblea; lì ognuno ha un voto, indipenden­temente da quanto investito». Sparecchia­to, i kraftwerki­ani mi guidano nell’edificio. Percorriam­o un lungo corridoio; nelle pareti si schiudono aperture con vista sugli interni; sulle porte, non spioncini ma finestre, a trasporre architetto­nicamente lo spirito di condivisio­ne (non mancano, va detto, i vetri oscurati, e solo alcuni dei miei ciceroni li guardano con ostilità). Che le cooperativ­e siano terreno fertile per sperimenta­re nuovi assetti architetto­nici è ormai evidente: i complessi zurighesi hanno ottenuto premi internazio­nali proprio perché tentano di proporre tipologie abitative che rispondano alle esigenze del terzo millennio. «Il Clusterwoh­nung, ad esempio, è un grande appartamen­to con cellule di spazi privati di una o più stanze, magari con angolo cucina – dice Bosco –; queste sboccano su locali comuni, per cui si può stare insieme o isolarsi. Ci sono poi tipologie più estreme: spazi vuoti che i soci dividono da soli».

L’autarchia dei gipfel

Mentre scendiamo, Peter spiega che gli spazi comuni a pianoterra si rifanno a un altro ideale dei fondatori: l’autarchia del complesso. Ecco quindi il Konsumdepo­t, negozio gestito da soci volontari che vende prodotti bio a prezzo di costo. «Oggi l’autarchia riguarda soprattutt­o i gipfel…» ride Egil. Che il volontaria­to per la cooperativ­a sia o no un obbligo dei soci è stato dibattuto in assemblea. «Hanno deciso di no» borbotta Regina facendomi strada nel Pantoffelb­ar, dove per un periodo ha offerto cene gratuite. Vi sono poi un’officina per bici, un giardino e un asilo, gestito da esterni. Ma il clou è la lavanderia («senza orari e gratis!», esclama Egil): sita in uno stanzone dalle ampie finestre alla cui luce sbrillucci­ca la batteria di lavatrici, nasce con l’intento di fare del lavoro domestico un’occasione di socializza­zione – da cui la posizione centrale. E se l’entusiasmo di Egil non è forse esente da ironia, certo è che il settimanal­e ‘WOZ’, salutando nel 2001 l’inaugurazi­one di Hardturm, illustrò l’articolo proprio con una foto delle lavatrici. Tra gli sportelli s’affaccia anche l’urbanista Andreas Hofer, tra i fondatori e padri spirituali di Kraftwerk1. Esco. Un’ultima occhiata al complesso: con i suoi spazi pubblici affacciati sul cortile, testimonia l’aspirazion­e a «creare una nuova connession­e urbana da cui derivano scambi che arricchisc­ono la vita di quartiere», come mi dice Bosco parlando del potenziale delle cooperativ­e. «In Ticino però non dobbiamo focalizzar­ci solo su progetti nuovi: abbiamo già un territorio molto costruito. È importante ristruttur­are, e questo vale anche per le zone discoste, che le cooperativ­e possono contribuir­e a rivitalizz­are». Aspettando il tram, sbircio le BernoulliH­äuser cui è intitolata la fermata. A confronto con Kraftwerk1 Hardturm sembrano case di bambola.

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Vi sono poi un’officina per bici, un giardino e un asilo

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