I mercati non votano
A ogni appuntamento elettorale in Europa e non solo, le reazioni dei mercati finanziari sono sempre molto attese e spesso eccessivamente temute. Non sfugge a questa logica il voto italiano. Gli analisti si sbizzarriscono in scenari più o meno plausibili e spesso fanno emergere anche delle preferenze per nulla occulte. Basta ricordare per quale candidato fosse schierata ‘Wall Street’ alla vigilia delle presidenziali statunitensi del 2016 e vedere cosa è successo pochi giorni dopo. A parole Donald Trump era dipinto come inadeguato a governare gli Stati Uniti. Il suo programma elettorale era (e rimane) venato di populismo, di propositi protezionistici, tagli fiscali e investimenti miliardari in infrastrutture. A distanza di oltre un anno il populismo trumpiano è rimasto intatto, i regali fiscali sono stati tutti per le grandi aziende con ingenti utili depositati all’estero (le big del web ringraziano) e degli investimenti pubblici promessi non c’è ancora traccia. Eppure i mercati finanziari l’anno scorso hanno avuto performance a doppia cifra tanto che l’indice Dow Jones 30 ha battuto ogni record storico al rialzo. Il catastrofismo della vigilia si è rapidamente trasformato in una festa a ostriche e champagne. Il caso americano è forse il più emblematico, ma non è l’unico. Pochi mesi prima dell’elezione di Donald Trump ci fu il referendum britannico per l’uscita dall’Unione europea. Un risultato potenzialmente deflagrante per la stessa Unione europea, ma i principali listini, dopo l’iniziale sbandamento, ‘digerirono’ l’esito di quel voto storico. Ed è successa più o meno la stessa cosa (dal punto di vista della finanza) anche per le elezioni politiche spagnole (314 giorni per formare un governo) con l’appendice dello scorso autunno per le pulsioni indipendentiste catalane che ancora continuano; per le elezioni olandesi (una coalizione è stata possibile solo 225 giorni dopo il voto), per non parlare del governo austriaco che è nato sì in modo celere, ma si fonda sul voto determinante – e non onorevole – dell’estrema destra, quella dura e pura. Infine, il caso Germania. I cittadini tedeschi si sono recati alle urne alla fine della scorsa estate e alle soglie della primavera ancora non è stato varato il governo a guida Merkel. L’accordo con i socialdemocratici c’è ma sull’intesa si esprimerà la base dell’Spd, tanto che l’esito (non scontato) sulla ‘Grosse Koalition’ arriverà domenica, in concomitanza con le politiche italiane. Il cui risultato, stando ai sondaggi della vigilia e al complesso meccanismo elettorale (che è una sorta di proporzionale mascherato da maggioritario), non dovrebbe assegnare la vittoria a nessuna delle forze politiche in campo lasciando aperta la strada ad alleanze spurie tra destra e sinistra (Pd e Forza Italia) o addirittura tra i Cinquestelle (probabilmente il partito più votato) e quello che rimane della sinistra scissionista, magari con l’appoggio esterno della Lega di Matteo Salvini. Ipotesi fantascientifiche, certo, ma che rendono l’idea dello stallo e inettitudine in cui si trova l’attuale classe politica italiana, incapace di affrontare un vero programma di riforme che contemplino, per esempio, una crescita economica duratura; investimenti seri nella formazione scolastica e accademica; un contrasto forte alla criminalità organizzata, vera padrona di intere regioni; politiche sociali che invertano il calo demografico, anche gestendo pragmaticamente e senza isteria i flussi migratori in arrivo da Africa e Medio Oriente. Le ipotesi di lunghe trattative per formare un governo di larghe intese e di una legislatura breve non sono per nulla peregrine. Comunque andrà, i mercati se ne faranno una ragione anche questa volta.